Agricoltura urbana e periurbana: nuovi stili di vita per le future città sostenibili

Non soltanto trend o mode passeggere ma modelli necessari per future città sostenibili

Sempre più spesso si parla, e si sente parlare, di orti urbani e di agricoltura urbana come di un trend in crescita nelle nostre città. E in effetti, i dati Istat relativi all’estensione del verde urbano mostrano un aumento del 3,7% tra il 2011 e il 2016, all’interno del quale le superfici dedicate ad orto urbano sono decisamente impennate (+51% dal 2011).

Nel 2013 Nomisma stimava in circa 2,7 milioni i coltivatori di orti in Italia mentre, secondo Coldiretti/Censis (2017), sarebbero addirittura 20 milioni coloro che, in un modo o nell’altro, con la bella stagione approcciano orti, giardini e terrazzi in Italia, un po’ per passione (10%) o per risparmiare (4,8%), ma soprattutto per la voglia di mangiare prodotti sani e genuini (25,6%).

In ambito urbano, tuttavia, troppo spesso si intende tale attività alla stregua di una moda un po’ naïfe, un modo per riconquistare quella relazione con la natura che la cementificazione dilagante ci ha fatto rimpiangere. In generale la si considera un’attività comunque marginale, pensata a tenere occupati pensionati o inabili a lavoro. Altre volte ancora, invece, quando magari diventa la base di una qualche attività economica più strutturata, magari di qualche ristorante un po’ trendy, la si relega a trovata pubblicitaria rivolta ad una clientela urbana colta, facoltosa e un po’ snob.

L’agricoltura e l’orticoltura urbana possono essere certamente tutto questo, ma è anche qualcosa in più e di diverso, come d’altronde testimonia l’attenzione posta al tema dalle istituzioni pubbliche a tutti i livelli (locale, nazionale ed europeo).

Per comprendere la portata dell’argomento e le sue reali potenzialità, bisogna infatti riportarlo alla dimensione macro-sociale, astraendo dalle singole esperienze, per ricondurre l’orticoltura e l’agricoltura urbana al complesso delle sfide che attanagliano il nostro mondo contemporaneo e, in particolare, le nostre città.

Agricoltura urbana, orticoltura urbana e sostenibilità

Uno dei concetti necessari per inquadrare tali sfide è, sicuramente, il concetto di “sostenibilità”. Un tema universale che trova crescente accoglimento anche nel nostro Paese, dove la netta maggioranza della popolazione vi si dichiara oramai sensibile (74%, +15% rispetto al 2017 e +31% rispetto al 2015). Gli italiani, in particolare, si dichiarano preoccupati per pesticidi ed inquinamento (90%), come a sottolineare che il cibo e l’ambiente urbano sono in cima alle preoccupazioni, così come si ritiene “sia giusto e vada fatto” aumentare le aree verdi urbane (70%) (dati: Osservatorio sugli stili di vita sostenibili 2018).

Al di là di questo accoglimento diffuso, il concetto di sostenibilità rappresenta un ampio tema “ombrello” che ricomprende cose anche molto diverse, tutte comunque differentemente riconducibili ad un comune denominatore: l’impossibilità dell’attuale modello di sviluppo socio-economico a perpetuarsi nel tempo e a fornire, così com’è, adeguate risposte ai bisogni delle generazioni future.

A partire dai primi allarmi lanciati dal Club di Roma, l’approccio sostenibile allo sviluppo si è andato poggiando su tre pilastri fondamentali, che corrispondono ad altrettanti fondamentali aspetti: quello economico, quello sociale e, chiaramente, quello ambientale.

Questo approccio tripartito alla sostenibilità, noto anche come triple bottom line, indica chiaramente come lo sviluppo non possa prescindere da una sostenibilità dell’azione economica, senza per questo che ciò avvenga a scapito dell’ambiente o dell’equità sociale. Detto altrimenti: non è più possibile scaricare le esternalità negative dello sviluppo economico altrove, sull’ambiente così come sui rapporti sociali. Serve - come ci hanno recentemente ricordato con lo sciopero per il clima non a caso le generazioni più giovani - un approccio olistico, capace di tenere tutto insieme e subito.

In particolare, le urgenze che attanagliano le metropoli contemporanee riguardano, innanzitutto, due fenomeni distinti ma intrecciati. Da un lato il progressivo aumento della popolazione mondiale, stimata al 2050 in circa 9 miliardi di persone (si pensi che eravamo neanche un miliardo appena 200 anni fa) e, dall’altro lato la concentrazione di persone nelle aree urbane, da anni ormai – e per la prima volta nella storia dell’uomo - superiore al numero delle persone che vivono in aree rurali.

Seppure questi due fenomeni assumano dinamiche anche molto diverse tra Paesi di prima industrializzazione e Paesi in via di sviluppo, essi rappresentano questioni ampiamente condivise e che vanno nella medesima direzione, ovvero la crescita esponenziale delle città e del loro “metabolismo”.

Da questo punto di vista, le metropoli possono essere metaforicamente paragonate ad un organismo che, nel suo processo di crescita economica, ingurgita risorse di ogni tipo, prime fra tutto risorse alimentari ed energetiche, eliminando prodotti di scarto (rifiuti).

L’agricoltura metropolitana e l’orticoltura urbana, allora, possono concretamente contribuire, in primis a questo metabolismo urbano, producendo direttamente il cibo per sfamare la città, invece che alimentare il divario tra territori rurali “produttori” e territori urbani “consumatori”.

L’orticoltura e l’agricoltura urbana possono allora essere viste come forme di innovazione in tale direzione. Sotto questo aspetto, uno studio sperimentale della Facoltà di Agraria dell’Università di Bologna, condotto tra il 2012 e il 2016 a partire da una serie di orti idroponici fuori terra sul tetto di un palazzo popolare, ha permesso di stimare, ad esempio, come uno sviluppo sistematico e capillare di orticoltura di questo tipo sugli oltre 80 ettari di tetti piani dei palazzi di Bologna potrebbe soddisfare quasi il 77% del bisogno di vegetali dell’intera area urbana.

Come evidenzia chiaramente questo esempio, si tratta di ripensare un modello produttivo che sia decentrato e capace di fare fronte ad una intrinseca frammentazione organizzativa e gestionale, ripensando la produttività agricola, soprattutto metropolitana, in termini intrinsecamente plurali o, come si dice tecnicamente, in chiave “multifunzionale”.

L'agricoltura multifunzionale

Un’agricoltura multifunzionale significa allora associare al modello produttivo incentrato sulla produzione colturale, anche servizi di tipo “ecosistemico” e/o a sfondo sociale, integrati nelle stesse politiche pubbliche di sviluppo urbano. Nel primo caso si tratta di prevedere un allargamento pianificato delle aree verdi e ortive funzionali, ad esempio, alla costruzione di corridoi ecologici per favorire e promuovere la biodiversità, oppure volti a contrastare il consumo di suolo ad uso prevalentemente edilizio delle città (residenziale e/o commerciale), con conseguente impermeabilizzazione dello stesso, fattore quest’ultimo importante relativamente alla capacità di adattamento ai cambiamenti climatici, per evitare, ad esempio, alluvioni e frane, ma anche in funzione di regolazione della temperatura urbana nei mesi estivi, ecc.

Dal punto di vista sociale, invece, la multifunzionalità tipica dell’approccio urbano (e periurbano) all’agricoltura, significa, innanzitutto, ritrovata socializzazione, sviluppo di capitale sociale e impegno civico. Come ha messo chiaramente in evidenza Roberta Bartoletti (2016) dell’università di Urbino, se i community garden americani ed europei avevano in passato una funzione prevalentemente produttiva (es. orti di guerra), oggi «la posta in gioco cruciale sono le relazioni, […] che nei giardini vengono ‘coltivate’ insieme a fiori e ortaggi, metafora ricorrente nei discorsi e nelle immagini evocate da giardinieri e attivisti. […] prendersi cura di un orto in forma collettiva significa […] prendersi cura della comunità a cui si sente di appartenere e dei beni comuni di cui quella comunità dispone per sopravvivere simbolicamente e concretamente».

Oltre a tale funzione civica, l’agricoltura metropolitana coinvolge anche (e sempre di più) lo sviluppo dei servizi relativi al terziario avanzato proprio delle economie urbane, ad esempio, in termini di servizi ricreativi, educativi.

La funzione educativa dell’orticoltura è, infatti, oramai fuor di dubbio, se è vero, come riportato da Coldiretti, che «in Italia almeno una scuola su dieci ha il proprio orto didattico o porta avanti progetti educativi in cui sono presenti spunti legati all’agricoltura». Per non parlare degli aspetti riabilitativi e socio-assistenziali legati all’agricoltura che stanno prendendo sempre più piede.

Il Rapporto agricoltura sociale 2017 evidenzia, infatti, come attività di agricoltura sociale abbiano avuto un vero e proprio boom negli ultimi 10 anni, interessando per lo più cooperative sociali (46%) che si occupano, ad esempio, di disabilità (54%), disoccupazione con disagio (31%), ecc.

Si tratta di un aspetto della multifunzionalità agricola che apre ad una prospettiva di servizio pubblico e utilità collettiva, rispondendo ad una concezione plurale, decentralizzata e “diffusa” del modello di welfare ormai ampiamente radicata e sostenuta da una specifica legislazione (dalla modifica del titolo V della Costituzione alle più recenti e specifiche leggi in materia di riordino del terzo settore e dell’agricoltura sociale).

In conclusione, per i motivi fin qui illustrati, l’orticoltura urbana così come l’agricoltura periurbana, lungi dal rappresentare soltanto trend o mode passeggere, vanno interpretate piuttosto come modelli necessari ad affrontare le sfide economiche, ambientali e sociali delle future città sostenibili. Tali pratiche sono perciò destinate a proliferare e, soprattutto, a strutturarsi come modelli di riferimento di stili di vita urbani duraturi.

L'autore è ricercatore Ces.Co.Com, Centro Studi Avanzati sul Consumo e la Comunicazione, Alma Mater Studiorum Università di Bologna

Agricoltura urbana e periurbana: nuovi stili di vita per le future città sostenibili - Ultima modifica: 2019-03-21T16:00:48+01:00 da Claudia Notari

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