Export agroalimentare, dazi e barriere frenano la corsa

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Soprattutto da parte delle Pmi, mentre è indispensabile che si allarghi la base delle imprese esportatrici per raggiungere il traguardo dei 50 miliardi di export al 2020, secondo uno studio condotto da Nomisma.

Da strategia di sopravvivenza a opportunità di crescita; si potrebbe così sintetizzare il processo di internazionalizzazione che negli ultimi 10 anni ha contraddistinto l’attività imprenditoriale del settore agroalimentare italiano. Sebbene l’Italia abbia da sempre giocato un ruolo di primo piano nel commercio internazionale di prodotti agroalimentari, il calo dei consumi domestici conseguente agli effetti della crisi economica ha spinto le imprese alimentari italiane a rivolgersi sempre di più al consumatore straniero. Basti pensare che tra il 2007 e il 2017 il valore delle esportazioni agroalimentari italiane è passato da 22 ad oltre 40 miliardi di euro, record storico, sebbene ancora lontano dall’ambizioso traguardo che il Paese si è dato dei 50 miliardi al 2020. In particolare, a trainare questa crescita sono settori tipici del “made in Italy” come lattiero-caseario, carne e derivati, vino, che, a partire dal 2007, hanno fatto segnare incrementi medi annui dell’export superiori al 6%.

È quanto emerge dalla relazione di Nomisma presentata in occasione di un recente convegno “L’agroalimentare italiano alla prova dell’internazionalizzazione”, evento organizzato a Bologna dallo studio legale LS Lexjus Sinacta e che ha visto la partecipazione, tra gli altri, di Ioanna Stavropoulou (Granarolo spa), Giordano Emo Capodilista (Confagricoltura), Massimiliano Montalti (Assologistica), Andrea Villani (A.G.E.R.), Damiano Frosi (Politecnico di Milano).

Un export “made in Italy” che colloca l’Italia in quinta posizione in Europa alle spalle di Olanda, Germania, Francia e Spagna a dimostrazione di come la brand reputation da sola non sia sufficiente per affrontare i mercati internazionali e garantire una leadership. Conoscenza, competenza e organizzazione sono elementi indispensabili in questo processo di internazionalizzazione spesso appannaggio delle imprese più strutturate. Basti pensare che in Italia solamente l’1,7% delle imprese alimentari ha più di 50 addetti – contro il 10,5% della Germania o il 4,1% della Spagna – ed è in grado di esportare circa il 30% della propria produzione.

La presenza ridotta dei prodotti italiani nei mercati più distanti è un ulteriore evidenza di questi limiti: basti pensare che i due terzi dell’export agroalimentare italiano sono destinati a mercati “di prossimità”, cioè Paesi dell’Unione europea, mentre la restante quota si distribuisce tra America (13,5%), Asia (9%), altri Paesi europei (7,6%), Africa (2,4%), sebbene – e da qui si comprendono le ulteriori potenzialità inespresse del food&beverage italiano – nell’ultimo decennio il nostro export agroalimentare sia cresciuto del 229% verso il Medio Oriente, del 197% in Asia centrale, del 163% in Asia Orientale e del 123% nei paesi del centro-sud America.

«Affinché l’export dei prodotti agroalimentari italiani aumenti, è indispensabile che si allarghi la base delle imprese esportatrici, in larga parte riconducibili ad aziende medio-grandi e rappresentanti una quota ancora ridotta del totale, meno del 20% del settore» dichiara Denis Pantini, responsabile dell’Area agroalimentare di Nomisma. Tra le criticità che rendono la vita difficile alle Pmi italiane in questa corsa all’export, figurano dazi e barriere non tariffarie che rappresentano spesso ostacoli insormontabili. Tra il 2012 e il 2016 il numero di misure sanitarie e fitosanitarie e barriere tecniche e commerciali è aumentato rispettivamente del 43% e 99%, per non parlare dei dazi medi all’import che in alcuni casi sono superiori al 30% ad valorem. In quest’ottica, gli accordi commerciali giocano certamente un ruolo di primo piano; ne è una dimostrazione quanto sta accadendo sul mercato del vino in Cina, dove Australia e Cile, grazie ad accordi bilaterali che hanno azzerato i dazi all’importazione, insieme hanno eroso più del 10% del mercato a Francia, Italia e Spagna (che all’opposto non godono di queste agevolazioni).

Le opportunità in sostanza non mancano; nei prossimi 5 anni ci si attende infatti un’ulteriore crescita dei consumi alimentari in molti dei principali mercati mondiali: Stati Uniti (+24%), Cina (+44%), India (+85%), Russia (+45%), Corea del Sud (+22%), Canada (+35%). Sono questi mercati dove, tra l’altro, si stima aumenterà anche il reddito medio pro capite, una condizione utile alla luce dei prezzi medi dei prodotti italiani esportati dall’Italia, mediamente più alti di quelli dei competitor (ad esclusione del vino francese).

In definitiva, le imprese alimentari italiane si trovano oggi ad affrontare una duplice sfida: sul mercato domestico, dove, in un contesto di graduale ripresa dei consumi, il consumatore modifica continuamente il suo approccio alla spesa e pone sempre più attenzione nei confronti di valori come la salute, la sostenibilità ambientale e la semplicità con conseguenti effetti sulla composizione del paniere di spesa. E sul mercato internazionale, dove si configurano grandi opportunità di crescita ma, allo stesso tempo, le imprese si devono confrontare con una concorrenza agguerrita e organizzata e con mercati che richiedono competenze e conoscenze specializzate soprattutto alla luce dei repentini mutamenti nello scenario economico e geopolitico globale, in primis la Brexit e la politica protezionistica di Trump.

Export agroalimentare, dazi e barriere frenano la corsa - Ultima modifica: 2018-03-21T09:44:37+01:00 da Redazione Terra e Vita

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