Suinicoltura, la ripresa passa per l’export

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Antonio Piva: la valorizzazione del made in Italy obiettivo prioritario per questo settore

Non è facile invertire il trend di dieci anni di crisi e credere in una ripresa duratura del mercato. Soprattutto se gli allevatori di suini sono ormai disillusi e consapevoli che se qualche segnale positivo ogni tanto arriva è solo momentaneo. Subito dopo i costi di produzione tornano ad aumentare e i prezzi di mercato a scendere.

Ma oggi bisogna credere in un futuro migliore. Partendo dal vero punto di forza del settore: l’immagine di successo del prodotto made in Italy nel mondo. Parola di Antonio Piva, presidente di CremonaFiere. La Fiera di Cremona si occupa anche di suinicoltura, non solo perché tratta di zootecnia a 360 grandi, ma anche perché ospita un settore dedicato a questa filiera: “Italpig”, giunti quest’anno alla sua 19a edizione.

Come sta andando il comparto suinicolo?

«Sono stati rilevati piccoli segnali di ripresa, ma il settore ha grande bisogno di stabilità e di un aumento duraturo dei prezzi. Gli allevamenti di suini hanno attraversato anni di crisi, di difficoltà a raggiungere non tanto il guadagno, quanto piuttosto il break even. Le perdite in suinicoltura inoltre sono ancora più gravi di quelle del settore latte perché il ciclo è ancora più breve. Sono circa dieci anni che il settore cerca di superare questo momento di crisi. A volte sembra che il peggio sia superato e il mercato ritorni a dare competitività al settore, ma poco dopo i prezzi tornano a precipitare sollevando il panico tra gli allevatori».

Di cosa necessita oggi il settore?

«La suinicoltura ha tanti punti di contatto con il settore lattiero caseario. Può vantare infatti numerosi prodotti di eccellenza nella trasformazione, grandi marchi come il Prosciutto crudo di Parma e di San Daniele che sono universalmente noti e apprezzati in tutto il mondo. Anche in questo caso i brand italiani e le dop devono affrontare la concorrenza sleale dei prodotti similari o, ancora peggio, contraffatti. Oltre a una politica di vigilanza sul prodotto e di lotta più efficace alla contraffazione servono interventi di promozione, una corretta valorizzazione dei prodotti italiani sui mercati mondiali. I consorzi di tutela dovrebbero rafforzare il più possibile l’attività di tutela delle dop e creare le condizioni per combattere in modo efficiente il fenomeno dell’italian sounding cercando di spingere il più possibile il prodotto originale all’estero. Non si può dire che un prodotto sia italiano solo perché le carni vengono lavorate nel nostro Paese, occorre invece che i suini nascano e vengano allevati in Italia. Una strategia vincente di penetrazione dei mercati esteri potrebbe risultare decisiva per l’aumento della redditività del settore».

L’obbligo di indicare in etichetta l’origine potrebbe dare un valore in più?

«L’immagine del made in Italy rappresenta sempre un punto di forza, una garanzia di massima sicurezza e qualità, all’estero c’è la corsa ad acquistare italiano. È importante far leva su questa garanzia e fare in modo che sia correttamente remunerata. La tracciabilità potrebbe essere un valido strumento di valorizzazione. Ci sono differenze marcate tra un suino italiano e un suino allevato all’estero, ma oggi il consumatore non le può percepire. La maggior parte della carne proveniente dai suini pesanti italiani viene destinata al circuito delle produzioni dop e igp, la fase di allevamento è fortemente specializzata nella produzione del suino pesante, macellato a pesi superiori rispetto a quanto avviene nel resto d’Europa, proprio per venire incontro alle esigenze della fase di trasformazione».

E sull’ipotesi di produrre anche da noi un suino più leggero rispetto a quello pesante da 170 chilogrammi?

«Se ne parla da anni, ma esistono problemi da risolvere, non solo a livello di allevamenti ma anche di macelli. In aree marginali per la suinicoltura, ad esempio nel Meridione, potrebbe essere interessante sviluppare questa opportunità. Il suino in questo modo non verrà utilizzato solo per produrre insaccati, ma anche per il consumo di carne fresca».

Cosa ne pensa del marchio Sqn, proposto dal Mipaaf?

«Il progetto è interessante, ci si può lavorare, ma l’importante è riuscire veramente a valorizzare il prodotto italiano. Mi sembra più urgente l’apertura all’export di nuovi Paesi e la risoluzione di problemi sanitari che di fatto ci impediscono di raggiungere alcuni mercati. È assurdo che pochi casi di peste suina africana in Sardegna facciano scattare il blocco delle esportazioni. Il problema dura da anni e non è stato ancora risolto».

È intanto stato approvato dai ministri dell’Agricoltura europei un pacchetto di aiuti da 500 milioni di euro per i settori del latte e delle carni da dividere tra tutti i Paesi Ue.

«Il plafond di aiuti a ciascun Paese è chiaramente insufficiente. Al settore serve una massa d’urto per dare un futuro alla suinicoltura. Servono una maggior programmazione, aiuti agli investimenti e una politica di vera promozione. I tavoli di lavoro dovrebbero concentrarsi su queste tre priorità».

E infine parliamo della Cun, la Commissione unica nazionale, che dovrebbe rilevare i prezzi di mercato.

«Dovrebbe essere lo strumento di riferimento del mercato, ma gli allevatori continuano a denunciare l’impossibilità di una definizione del prezzo, mentre i macellatori attribuiscono alla controparte l’indisponibilità a riconoscere i momenti di calo del mercato. Non ha mai funzionato, nonostante le modifiche e i buoni intenti di tutte le parti. Se la trasformazione continuerà a non considerare il settore primario e a non riconoscerne il valore, la suinicoltura italiana difficilmente potrà sopravvivere. Tutti gli attori della filiera hanno il diritto di guadagnare».

 

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Suinicoltura, la ripresa passa per l’export - Ultima modifica: 2015-10-19T09:18:13+02:00 da Sandra Osti

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