C’è il rischio di un boom del riso da interno

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Paolo Carrà, presidente Ente nazionale risi
Verso il rilancio del marchio “Riso italiano”. Intervista a Paolo Carrà presidente dell’Ente Risi

La risaia italiana è in crescita, ma la situazione è tutt’altro che tranquilla. Difficile oggi tracciare un profilo di quello che sarà il quadro della risicoltura nazionale a medio-lungo termine e, ancora una volta, il problema principale riguarda le cosiddette libere concessioni, ovvero le importazioni a dazio zero dai paesi meno avanzati Pma (Cambogia e Myanmar in primis) che si aggiungono agli ormai consolidati contingenti Gatt. Una situazione che, come vedremo, potrebbe provocare preoccupanti effetti a catena.
Paolo Carrà, confermato da pochi mesi alla presidenza di Ente Nazionale Risi, evidenzia come sia la risicoltura italiana a pagare in prima persona gli effetti di scelte prese (e che si prenderanno) a livello internazionale.

Partiamo dalla volatilità dei prezzi, presidente, particolarmente evidente negli ultimi anni.
«Sicuramente il riso, come altre colture, ne è soggetto ed è oggi impossibile prevedere quale sarà l’esatto andamento dei prossimi anni – afferma Carrà –. Per quanto riguarda le scelte varietali per questa campagna, le ridotte prenotazioni di seme alla data odierna non ci permettono di fare previsioni, ma è lecito pensare che aumenterà, come sempre, la semina di quelle varietà che nella scorsa campagna hanno avuto prezzi sostenuti. Ciò che appare certo è una possibile ulteriore diminuzione delle superfici per i risi della sottospecie Indica, quello che più soffre il contraccolpo dell’import a dazio zero dai Pma. Un problema che non riguarda solo il mercato italiano, ma che purtroppo ha un’eco esponenziale in Europa; non dimentichiamo che la produzione del riso italiano è per il 70% destinata all’esportazione e, di tale quota, circa metà è rappresentata da risi Indica (di cariosside lunga e sottile, di cui il mercato comunitario è, appunto, grande consumatore). Una quota che rischiamo di lasciare in maniera sempre crescente ai Pma».

Una situazione che, di fatto, rischia di tagliare le gambe all’Italia. E non è storia recente…
«Occorre fare un piccolo salto indietro nel tempo: il riso fu incluso tra i prodotti sensibili in ambito Wto, ma con il fallimento dello stesso si sono aperti i cosiddetti accordi bilaterali, ultimo dei quali quello con il Vietnam. Basti pensare che nel periodo settembre-dicembre 2015 l’import di riso a dazio zero dai Pma è stato pari a 116.697 t, contro le 82.477 dello stesso periodo nell’anno precedente. È chiaro che siamo di fronte a un paradosso. Ci sono altri due accordi da tenere in considerazione: uno è quello con l’India, allo stato dell’arte dormiente per le note vicende politiche; l’altro è il mercato americano dei Ttip che, certo, può dare spazi di mercato ai nostri risi italiani, ma può anche iniettare altro prodotto straniero sui mercati europei. Insomma, il riso è divenuto uno dei prodotti che si trovano sempre più spesso sul tavolo delle trattative di commercio internazionale, e ciò a scapito del primo Paese produttore in Europa che è, appunto, l’Italia».

Meno riso Indica nelle nostre risaie, dunque. E ora che succederà?
«Il rischio è di trovarci di fronte a un aumento incontrollato delle quantità di riso da interno: se non verrà ristabilito un equilibrio, l’aumento dell’offerta della sottospecie Japonica potrebbe provocare uno squilibrio sui mercati a causa di una domanda rigida e consolidata nel tempo dello stesso, già visto peraltro in anni passati. Pertanto, l’eventualità di assistere a un forte ridimensionamento dei prezzi per questo comparto non è così peregrina. Ricordiamo che veniamo da una campagna (2014-2015) in cui le scorte presso produttori e industria erano pressoché pari a zero: questa è la motivazione per cui i prezzi della passata campagna erano così sostenuti».

Presidente, ma di fronte a queste incertezze perché è tornato ad aumentare l’ettarato a risaia?
«In realtà in quattro anni abbiamo perso circa 20mila ha a livello nazionale, passando da 247mila a 227mila ha. Se guardiamo l’ultima campagna (2014/2015) il leggero incremento dell’ettarato, pari ad 8mila ha circa, è semplicemente legato alla crisi del mercato del mais. In sostanza, sovente il riso funziona da camera di compensazione».

Uno scenario complesso. Ma un cambio di rotta è possibile? E quali strategie devono essere messe in atto?
«Innanzitutto, non illudiamoci che le concessioni tariffarie siano destinate a finire. Chi è del mestiere sa che le importazioni a tariffe agevolate ci sono sempre state e ci saranno anche in futuro. Occorre però individuare la corretta strategia per salvaguardare la nostra risicoltura nazionale: innanzitutto, essendo direttamente presenti nell’ambito degli accordi bilaterali, con input precisi ai negoziatori. Ovviamente siamo nel campo delle strategie di politica comunitaria: come Ente abbiamo più volte sollecitato – e continueremo a farlo – i servizi della Commissione europea, la quale si dimostra sovente miope nel non prendere in considerazione gli effetti negativi a medio ed a lungo termine che le importazioni a tariffa agevolata hanno sul mercato del riso in Europa e specialmente in Italia. Dare però solo la colpa ai servizi della Commissione non è corretto: vanno consolidate e condivise le strategie con gli altri produttori europei, in particolar modo Spagna e Grecia. In secondo luogo, è sempre più necessario portare a un dialogo costruttivo la DgTrade e la DgAgri comunitarie, ovvero le direzioni generali del Commercio e dell’Agricoltura. Gli accordi, prima di essere stretti, vanno supervisionati e ponderati nei loro effetti anche a medio e lungo termine».

Insomma, c’è molto da fare sul piano strategico. Lei, peraltro, è stato da poco riconfermato alla presidenza di Ente Nazionale Risi, e tra poco saranno pubblicati gli indirizzi programmatici.
«Sì, a metà febbraio il Consiglio di Amministrazione delibererà le linee che guideranno il mandato quadriennale, con l’obiettivo di presentarle immediatamente dopo al ministro Martina. Posso anticipare che i punti fondamentali verteranno sul tema della ricerca, sull’ottimizzazione del servizio di assistenza tecnica sul territorio nazionale, puntando sul miglioramento della comunicazione e divulgazione del riso italiano, coinvolgendo tutti quei soggetti che, pur non facendo parte direttamente della filiera, sono divulgatori ed opinion leader. Non da ultimo, occorrerà rivedere, rendendolo più adatto ai tempi, il marchio “Riso Italiano”, registrato già oggi da Ente Nazionale Risi a livello internazionale. Va rafforzato e reso più adatto ai tempi. Già oggi il marchio garantisce che il prodotto è coltivato, lavorato, trasformato e confezionato in Italia grazie ad un processo di rintracciabilità. Ancora, va promossa una valorizzazione delle varietà storiche italiane. Tutto questo sarà possibile se l’intera filiera risicola continuerà a muoversi all’unisono e presentarsi unita nelle proposte – e strategie – da costruire in ambito comunitario ed internazionale».

 

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C’è il rischio di un boom del riso da interno - Ultima modifica: 2016-02-17T08:00:27+01:00 da Sandra Osti

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