Piogge primaverili insistenti, canicola estiva e calo delle richieste sul mercato nazionale ed europeo. Da due anni la lavandula angustifolia, regina delle erbe officinali fra le colline dell’Alta Langa cebana – cinquanta ettari coltivati da una decina di aziende localizzate per lo più fra i comuni di Sale San Giovanni, Paroldo e Sale delle Langhe, con propaggini fino a Murazzano, Saliceto, Camerana e le valli Belbo e Uzzone – attraversa una delicata fase di transizione.
Domanda debole
Renato Suria, presidente del Distretto del cibo Monregalese-Cebano a indirizzo biologico e referente d’area di Coldiretti, è uno dei pionieri delle officinali in Alta Langa: nel 1997 ha piantato i primi campi nel comune di Sale San Giovanni, dove oggi coltiva, in regime biologico, 55 ettari di terreni, venti dei quali a lavanda, elicriso, isoppo, melissa, rosmarino, salvia, camomilla romana, finocchio e coriandolo. L’angustifolia occupa le estensioni maggiori: «Fino a qualche anno fa ne avevo 15 ettari, oggi me ne rimangono 7».
Il cambiamento climatico è il principale indiziato per la contrazione delle superfici: «La siccità del 2022 ha indebolito le piante, le abbondanti precipitazioni dei mesi di maggio e giugno, nelle primavere dell’ultimo biennio, hanno scatenato attacchi di virosi, muffe, e infezioni fungine come il marciume del colletto. I disseccamenti sono estesi: siamo stati costretti a espiantare una parte dei campi perché improduttivi, nel mio caso diversi ettari di lavanda messi a dimora da pochi anni».
Agli effetti negativi del clima avverso si uniscono, nel determinare la riduzione degli ettari di angustifolia – 30 in tutto l’areale nel 2025 – le rotazioni praticate per rinnovare gli impianti a fine ciclo produttivo. «Ho dovuto estirpare quattro ettari di lavanda: si trattava di campi piantumati più di dieci anni fa. Ne ho già rimpiazzati due ettari questa primavera, conto di piantarne altri quattro entro l’autunno per superare i dieci complessivi e tornare alla piena capacità di produzione».
Il raccolto 2025, portato a termine a fine luglio con il taglio meccanico della lavanda destinata alla distillazione – l’intera produzione del distretto viene assorbita dalla cooperativa Agronatura di Spigno Monferrato, realtà che raggruppa una trentina di aziende votate alle erbe officinali fra Basso Piemonte e Liguria – è un dato in controtendenza rispetto alle annate precedenti. «Nel 2023-24 le rese si erano fermate a 13 litri di olio per ettaro, quest’anno siamo tornati ai valori ordinari, 20 litri», ottenuti da volumi fra i 50 e i 60 quintali di fiori per unità di superficie. Numeri che permettono ricavi lordi «attorno ai tremila euro per ettaro, 1.500 al netto delle spese per le sarchiature manuali e la gestione meccanica dell’erba nell’interfila».
Il problema è la ricettività dei mercati: «La richiesta di essenze è crollata del 60%negli ultimi anni» riprende Suria. Lo stallo è una delle conseguenze di lungo corso del Covid-19: «Durante la pandemia le aziende hanno riempito i magazzini, per l’impennata della domanda: oggi stanno ancora smaltendo le rimanenze. Potrebbe occorrere qualche anno per risolvere la congiuntura negativa».
Quadro analogo traccia Gabriele Rossotti che fra Sale Langhe e Sale San Giovanni conduce 60 ettari di terreni. La lavanda è sì una coltura secondaria – l’azienda produce foraggi e cereali in regime biologico – ma di lungo corso: «Abbiamo iniziato nel 1996, le officinali erano un’alternativa redditizia». Le superfici di angustifolia, quattro ettari fino a qualche anno fa, hanno subito un calo drastico nell’ultimo biennio: «Me ne rimangono due ettari che ho deciso di non raccogliere quest’anno: molte piante sono seccate per le infezioni fungine del 2024. È un impianto giovane, al terzo anno, avrebbe dovuto garantire una buona produzione: non l’ho espiantato per poter valutare l’evoluzione della situazione fitosanitaria».
La scorsa campagna era andata meglio, seppur con un raccolto di bassa qualità: le rese si erano attestate attorno ai dieci litri di olio per ettaro, contro gli oltre 20 delle annate buone. «L’umidità di maggio e giugno ha interferito con la fioritura; per il poco calore, inoltre, le piante non hanno sviluppato pienamente le sostanze dalle quali si ottiene l’olio essenziale». Paradossalmente la siccità del 2022, «non aveva avuto grandi ripercussioni sulla produzione, per via delle giornate asciutte», precisa Rossotti.
Gli introiti nulli per il mancato raccolto contrastano con le spese immutate per la gestione degli impianti: «Mille euro solo per le sarchiature manuali delle infestanti», uno dei grandi problemi della coltura. Negli impianti dell’Alta Langa, infatti, la lavanda viene disposta a filari distanti 170 centimetri – per agevolare fresature periodiche, tre l’anno di norma – e 40 centimetri fra le piante della fila. «Non ci sono macchine che possano operare in spazi così ridotti, l’unica opzione è intervenire a mano due volte l’anno, in primavera ed estate. Un impianto libero dalle infestanti può durare fino a 10 anni», precisa l’agricoltore.
La combinazione fra fattori climatici e flessione della domanda di oli essenziali rischia di condizionare anche l’andamento delle prossime campagne: «Il calo delle richieste ha bloccato la realizzazione di nuovi impianti, quelli esistenti fanno i conti con le problematiche fitosanitarie: in questo modo, rischiamo di trovarci senza piante». Una prospettiva da scongiurare, secondo Rossotti, investendo sui nuovi appezzamenti: «Dobbiamo ripartire, nei primi mesi del 2026 metteremo a dimora un ettaro di lavanda, per valutarne la tenuta. Preferiamo piantumare in primavera perché riusciamo meglio a contenere le infestanti operando un’estirpazione pre-impianto».
Problema disseccamento
Marco Suria, coadiuvante nell’azienda agricola gestita dalla madre, Vittoria Cerrone, conduce 35 ettari di terreni nel comune di Sale San Giovanni. I primi impianti di lavanda, due ettari in tutto, li ha messi a dimora fra il 2018 e il 2019. «In tre anni la produzione è crollata del 70%. L’ultimo raccolto ordinario è stato quello del 2022 con 16 litri di olio essenziale per ettaro».
La combinazione di piogge primaverili e caldo torrido estivo è stata letale per le piante. Le prime «causano problemi all’apparato radicale della lavanda, sensibile al ristagno idrico; il caldo anomalo del mese di luglio, nel periodo post raccolta, ha arrestato il processo di rinnovamento della vegetazione. L’assenza di ricacci ha compromesso le capacità produttive dell’angustifolia e, in alcuni casi, ha determinato il disseccamento delle piante: i fondi messi a dimora negli ultimi 3-4 anni sono andati perduti. È sufficiente un 20-30% di piante secche per imporre l’estirpazione di un appezzamento: sarebbe impossibile, infatti, contenere le infestanti», aggiunge Suria.
Un danno notevole, se si considera che «nei primi due anni dalla messa a dimora non si raccoglie nulla ma ci si limita ad operazioni di pulizia dalle erbacce e al taglio manuale dei fiori, per favorire lo sviluppo delle piante. Dal terzo anno, con il progressivo accrescimento dei rami, si avvia la raccolta meccanica del prodotto».
Il rinnovo degli appezzamenti colpiti da disseccamenti non è immediato, non soltanto per i costi del materiale vegetale – più di seimila euro l’ettaro per i soli esemplari di angustifolia, fra i 40 e i 60 centesimi per ciascuna pianta – ma per i tempi richiesti dal disciplinare di produzione dell’agricoltura biologica. «Per accogliere un nuovo ciclo di lavanda i terreni devono “riposare” per quattro anni: in questo lasso di tempo i fondi vengono sottoposti a rotazioni con colture come l’enkir o il favino», conclude Suria.













