Il degrado del paesaggio in molte – troppe – aree del nostro paese ha una drammatica evidenza. Parliamo del paesaggio agricolo – quello creato nei secoli dalla sapiente mano dell’uomo, quello per cui il Bel Paese andava (e va ancora, nonostante tutto) famoso fin dai tempi dei Grand Tour, che portavano le élite europee a percorrere la penisola da Nord a Sud. Il fenomeno è incredibilmente palese anche da punto di vista statistico. Nel 1960 in Italia erano coltivati 20,9 milioni di ettari, oggi 12,4.
Si sono persi in totale 8,5 milioni di ettari, una superfice pari a quella di Lombardia, Piemonte e Sicilia messe assieme. Di questi 1,3 milioni (la superficie totale della Campania) risultano “cementificati” ovvero letteralmente coperti di manufatti. La superficie urbanizzata è passata dagli anni ’50 a oggi da 0,8 a 2,1 milioni di ettari, il 7% della superficie nazionale. Non è un caso che l’Italia abbia il record di produzione di cemento pro-capit: 565 kg contro una media europea di 404 kg. Piccola noterella storica: contrariamente a quello che si può pensare il grande sacco del paesaggio non è avvenuto negli anni ’60 e ’70 ma a partire dall’inizio degli anni ‘90, in cui si è effettuato lo sprawling – la “spalmatura” nelle campagne delle periferie residenziali delle città – la disseminazione ubiquitaria di capannoni industriali, la costruzione di centri commerciali e ipermercati sul modello statunitense. Meno noto al grande pubblico rispetto alla cementificazione è l’uso dei restanti 7,2 milioni di ettari dei sunnominati 8,5 mancanti all’appello. Di questi 5,3 milioni risultano coperti da boschi mentre 1,9 milioni sono marginali ed incolti.
Al fenomeno delle urbanizzazione selvaggia si affianca quindi quello dello spopolamento, dell’abbandono e possiamo dire anche “dell’inselvatichimento” di vaste aree del paese, in genere in montagna. Si può dire che oggi lungo lo Stivale abbiamo due Paesi paralleli, paralleli in senso altimetrico… un paese sovrappopolato, inquinato, caotico in basso e l’altro, tendenzialmente abbandonato ed incolto, in alto. Qui abbiamo una economia talora marginale, una incipiente desertificazione produttiva e anche borghi abbandonati – diverse fonti ne stimano in Italia fra i 5.000 e gli 8.000.
È specie in queste aree che si manifestano i segni della terribile fragilità idro-geologica italiana, che ogni anno tanto costa al nostro paese in termini economici e di vittime. Nella sola Liguria (tanto per citare una regione spesso interessata da episodi drammatici) il 98% dei comuni (232 su 235) presenta una elevata criticità geologica. Se pensiamo al futuro del nostro paese dobbiamo avere ben presente la situazione sia nelle aree peri-urbane sia nelle montagne ed intervenire. Intervenire – ovvero ripristinare il paesaggio e sostenere una agricoltura di qualità – può essere una straordinaria opportunità economica. Si tratta certo di adottare un nuovo paradigma e di oltrepassare lo sviluppo indiscriminato fatto a spese di un patrimonio limitato. Si tratta di passare dalla quantità alla qualità, dal bene individuale al bene comune.
Questo passaggio per un paese come l’Italia può generare una formidabile ricchezza. Rimettere a posto le brutte periferie e bloccarne la metastasi nel corpo agricolo, riordinare le campagne, ri-creare il paesaggio, ripopolare la montagna e renderla geologicamente sicura, curare il patrimonio naturale può generare ricchezza e fare ripartire l’economia.
Ma soprattutto migliorare la qualità della vita di tutti.
di Duccio Caccioni
Direttore Marketing&Qualità del Caab (Centro agroalimentare di Bologna), Editor di Fresh Point Magazine