Frumento antico è tradizione, sapore, salute di Beatrice Toni
Chi vorrebbe un grano poco produttivo, con tendenza all’allettamento, alti costi di trasformazione e, nel caso del duro, scarsa resistenza alla cottura? Nessun agricoltore. Molti consumatori. Quelli che acquistano prodotti derivati da grani antichi, alias le varietà del passato non migliorate geneticamente. Il vintage “sfonda” anche nell’agroalimentare. È una moda (vedi l’operazione kamut), è soprattutto la ricerca della salubrità. Si accompagna a parole chiave come tradizione, sapore, salute (meno glutine, meno gonfiore, meno glicemia, celiachia, ecc.). Non tutto dimostrato scientificamente, il marketing gioca la sua grande parte, ma il contenuto in minerali sarebbe davvero più elevato e il farro conterrebbe più proteine. E non solo. Al momento, potrebbe sfamare anche gli agricoltori. La pasta integrale di farro monococco è venduta negli States a prezzi molto superiori a una buona pasta di semola. Altrettanto accade in Italia per i prodotti a base di grani antichi venduti nella gdo e punti vendita (studio condotto a Parma e dintorni). La comunicazione li abbina a frutta e verdura... Cavalcano l’onda grandi aziende e molini. È una nicchia italiana di elevato potenziale secondo gli esperti, nel biologico in particolare. Una delle sei tendenze dei prodotti da forno nel 2014. Ha sentenziato di recente un guru della gdo statunitense: i consumatori sono poco sensibili alla sfida agricola di sfamare il mondo, ma alla cura del loro benessere e della loro salute sì. Marketing a parte, è uno stimolo per la ricerca Sarà ora di aggiornare la battaglia del grano? In parte sì. È il mercato.
Non inquiniamo gli ortaggi di Paolo Battistel
C’è un rinnovato interesse anche per molte varietà dimenticate di ortaggi. Locali, fortemente radicate in territori specifici, spesso sull’orlo dell’estinzione, tenute in vita solo dalla buona volontà di qualche vecchio agricoltore o da piccoli club di appassionati che si scambiano i preziosi semi. Sono varietà poco o niente selezionate e pertanto contraddistinte da scarse rese e corta shelf-life, spesso anche da bassa resistenza ai patogeni radicali. Il contrario di quanto chiede oggi l’agro-industria. Tutti punti deboli, tuttavia, che potrebbero diventare la loro fortuna, se ben sfruttati. Il basso livello di selezione, infatti, le fa portatrici di un vasto bagaglio di minerali e vitamine, di colori non standardizzati, ma soprattutto di sapori particolari. Tenere in vita questi ortaggi antichi non è una via per sfamare l’umanità. Per questo servono produzioni di massa, con alte rese e alta shelf-life, per ridurre le perdite dal campo al consumatore. Diciamolo pure: non sono una soluzione per i Paesi in via di sviluppo, ma possono diventare un privilegio per vivere meglio in quelli avanzati. E anche una buona fonte di reddito per piccoli agricoltori legati al territorio, alle tradizioni locali, a circuiti privilegiati di ristoranti o trattorie d’élite. A lungo termine anche un modo eccellente per conservare e valorizzare la variabilità genetica di molte varietà, cui anche l’agro-industria potrebbe attingere. L’importante è che l’agrobusiness non si accorga di loro sennò, invece che estinguersi per scomparsa del seme, lo sarebbero per “inquinamento genetico”.