Frascarelli: «L’etichetta non basta. Ci vuole la filiera organizzata»

politica agricola
Angelo Frascarelli
Nel mercato, come nel calcio, non vince la squadra con più talenti, vince la squadra più organizzata

Il 20 luglio i ministri delle Politiche agricole e dello Sviluppo economico hanno firmato due decreti interministeriali per introdurre l’obbligo di indicazione dell’origine del riso e del grano per la pasta in etichetta. Ad aprile scorso, una norma analoga era già entrata in vigore per tutti i tipi di latte e prodotti lattiero-caseari.

I consumatori italiani (ricordiamo che questo obbligo vale solo per l’Italia) potranno leggere nell’etichetta della pasta il “paese di coltivazione” e il “paese di molitura” del grano duro; analogamente, il “paese di coltivazione” e il “paese di lavorazione e di confezionamento” del riso.

L’obbligo dell’etichettatura di origine viene presentata come la soluzione di molti problemi competitivi dell’agricoltura italiana.

Si afferma frequentemente: “se il prodotto finale viene etichettato con l’origine, finalmente i prodotti italiani avranno più valore e l’agricoltore potrà beneficiare di un prezzo maggiore per le sue materie prime”.

 

Ma è veramente così? Solo a certe condizioni. Certamente il made in Italy ha una grande reputazione: secondo Google, il made in Italy è il terzo brand al mondo per notorietà dopo “CocaCola” e “Visa”.

Nelle economie sviluppate, oggi, gli alimenti sono in eccesso, quindi i prezzi sono bassi; contestualmente la nuova economia attribuisce ai prodotti alimentari, sempre meno un valore d’uso e sempre più un valore emozionale. In questo senso, il made in Italy ha una grande forza e consente il passaggio dei nostri prodotti agricoli/alimentari da commodities a specialities.

È giusto quindi che il valore del made in Italy venga evidenziato e “sfruttato” a vantaggio dei produttori di grano duro, di latte o di riso e non solo a vantaggio dell’industria alimentare. Le normati ve sull’obbligo dell’indicazione dell’origine hanno questo scopo.

 

Allora l’obbligo dell’indicazione dell’origine è una politica che porterà solo vantaggi?

L’aumento della trasparenza delle informazioni al consumatore è un fatto positivo. Tutelare i produttori e rafforzare i rapporti di due filiere fonda mentali per l’agroalimentare made in Italy è una strategia importante. Ma – da sola – non basta per la competitività dell’agricoltura italiana.

Attenzione a due fattori!

 

Primo. Il marchio “made in Italy” non ha una gestione unitaria; in esso non vi sono sempre prodotti di eccellenza e imprese “serie”. L’origine del grano duro non equivale sempre alla qualità della pasta; per lo meno, non è vero per tutte le imprese agroalimentari italiane. Idem per il latte e per il riso. Il consumatore potrebbe scoprire che un’ottima pasta deriva anche da grano duro non italiano; e viceversa che una pasta di grano duro solo italiano non è sempre sinonimo di qualità.

 

Secondo. Nel mercato, come nel calcio, non vince la squadra con più talenti, vince la squadra più organizzata. Le eccellenze agroalimentari italiane sono una risorsa straordinaria, ma non bastano. Occorre l’organizzazione. È inutile vantare la qualità e l’origine dei nostri prodotti, se poi non siamo in grado di portarli in modo efficiente ed efficace dal campo al consumatore. Alla tavola del consumatore non arriva il grano duro, arriva la pasta che è un’altra cosa.

Non basta l’obbligo dell’etichettatura di origine. L’agricoltore isolato – anche con un prodotto eccellente – non ha futuro. Anche l’industria alimentare e la distribuzione nazionale, senza collaborazione con la filiera italiana, saranno sbranate dai pescecani della globalizzazione.

La soluzione? Ben venga l’etichettatura di origine, ma non basta! Occorre creare accordi e reti tra imprese agricole e industria alimentare di reciproco interesse economico.

 

di Angelo Frascarelli

Università di Perugia 

angelo.frascarelli@unipg.it

Frascarelli: «L’etichetta non basta. Ci vuole la filiera organizzata» - Ultima modifica: 2017-08-30T14:16:04+02:00 da Barbara Gamberini

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