Ho dormito nella New York che non dorme mai. Quella di Times Square, dove le notti sembrano più luminose del giorno e anche il silenzio ha un sottofondo: clacson, sirene, jazz che sbuca dai locali e idranti che spruzzano acqua sull’asfalto rovente. Nuvole di vapore si alzano dai tombini come sospiri di una città che respira in apnea. È da lì, da quell’angolo esagerato del mondo dove tutto è possibile, che è iniziata la mia passeggiata verso il mio primo Summer Fancy Food.
Un cammino breve ma intenso, tra vetrine scintillanti e volti che parlano tutte le lingue. Una marcia silenziosa nel frastuono, con una consapevolezza che cresce passo dopo passo: noi italiani siamo riconoscibili ovunque. Nel portamento, nel modo di vestire, nel sorriso. Ma soprattutto, nel nostro modo di vivere il cibo.
La mattina dell’inaugurazione, in un crescendo di attesa, arrivo sulla 11th Avenue e varco l’ingresso del Javits Center. Non è immenso come lo immaginavo, ma ha saputo accogliere tutta la grandezza dell’Italia. Appena entrata, ritiro con orgoglio il mio badge "Press – La Voce di New York".
Così comincia il mio Summer Fancy Food Show 2025, che ci vede protagonisti assoluti come partner country, sotto il claim “Italy, the Art of Taste”. E la nostra arte ha davvero invaso gran parte del livello 1 e del livello 3 del centro fieristico: un’Italia che profuma di olio buono, di salumi d’autore, di formaggi che raccontano storie millenarie.
Salgo sulla scala mobile ed ecco la scritta che mi fa sentire immediatamente a casa: ICE – Italian Trade Agency e Ministero dell’Agricoltura. Il tricolore, l’eleganza sobria degli stand, l’accoglienza calorosa. Una presenza forte e discreta, che si impone con l’autenticità e non con il clamore.
Orgoglio tricolore
Pochi isolati più in là, arriva anche la consacrazione pubblica. Sul vidiwall principale di Times Square – il maxischermo più iconico del mondo – poco dopo le 22 va in onda un video emozionante, promosso dal Masaf, per celebrare la candidatura della cucina italiana a Patrimonio Immateriale dell’Umanità Unesco.
L’idea è stata del ministro Francesco Lollobrigida, che ha voluto lanciare questo spot nel cuore pulsante di Manhattan, interpretando nel modo più romantico la qualità dei nostri prodotti e il senso profondo di coesione che da essi scaturisce. Un messaggio forte e universale, che lega due Paesi lontani ma storicamente vicini, uniti da un’affinità culturale e gastronomica che resiste al tempo e alle distanze.
Tre minuti di orgoglio nazionale che tengono centinaia di passanti con il naso all’insù. Occhi curiosi, volti di ogni origine incantati da una narrazione che parla di terra, mani, tradizione e sapori veri. Scoppia un applauso spontaneo, caldo, quasi commosso. E come scriveva Gio Ponti nel suo Tutt’a l’Italia, «ci hanno lasciato il palco per farci ballare».
Dazi: l'unica nota stonata
Ma non è tutto oro ciò che luccica. Tra le emozioni che porto a casa ci sono anche riflessioni più amare, inevitabilmente legate al contesto geopolitico ed economico che oggi attraversa l’Atlantico. Gli Stati Uniti dell’era Trump offrono uno scenario complesso, che – come ha sottolineato Paolo De Castro mentre percorrevamo insieme il corridoio 2000 della fiera – richiede un’analisi «spassionata e politicamente scorretta» per coglierne fino in fondo le implicazioni.
Trump, con la sua diplomazia aggressiva, sta ottenendo risultati. «Alzare la voce, sbattere il pugno sul tavolo, in qualche caso funziona», ammette De Castro. E i fatti parlano chiaro: l’eccezione ottenuta dagli Stati Uniti al G7 sulla minimum tax, le decisioni della Corte Suprema che limitano i poteri dei giudici federali, gli accordi milionari con CBS Paramount per risarcimenti record.
A supportare questa linea anche i numeri sull’occupazione: 145.000 nuovi posti di lavoro a giugno, anche se – va precisato – la maggioranza è nel settore pubblico, non in quello privato. E poi c’è il dollaro debole, che paradossalmente aiuta: rende più competitiva la produzione americana e facilita la gestione dell’enorme debito pubblico.
Ma intanto, a pagare il prezzo di queste scelte sono anche i nostri prodotti. L’agroalimentare europeo è sotto pressione: le nuove minacce di dazi del 17% da parte di Trump si sommano a tariffe già esistenti, generando un effetto cumulativo devastante. “Il nostro parmigiano reggiano e il grana padano pagano già il 15% pre-Trump, più il 10% aggiunto da lui. Siamo al 25%,” denuncia ancora De Castro, proprio dallo stand dei consorzi.
La conferma arriva anche dai prezzi rilevati in alcuni supermercati di New York: il Parmigiano Reggiano tocca i 70 dollari al chilo. La pasta italiana, già gravata da un dazio del 16%, ora arriva al 26%. “Questo +10% va letto filiera per filiera”, avverte l’europarlamentare, “perché l’impatto varia e va affrontato con lucidità”.
In uno scenario come questo, l’orgoglio per la forza del nostro agroalimentare si accompagna alla consapevolezza delle sfide che ci attendono. Raccontare il gusto italiano nel mondo è un onore, ma anche una responsabilità.
Torno a casa con il badge ancora appuntato sulla giacca e il tricolore nel cuore. Con negli occhi l’immagine di Times Square che ci guarda, ammirata, mentre noi – italiani – danziamo, fieri, sul palcoscenico del mondo. Tra aromi familiari e tensioni commerciali, resta una certezza: il cibo è molto più di ciò che mangiamo. È cultura, identità, visione. E in questo, sì, siamo ancora un esempio.











