L’evoluzione planetaria negli ultimi anni ha portato all’emergere di alcune problematiche ormai condivise da tutti i paesi del mondo in quella che è una vera e propria globalizzazione delle sfide che ci si trova ad affrontare. Sfide che, fino a pochi anni fa, erano analizzate e approcciate su una scala assai più limitata.
I mutamenti climatici, il rispetto per il pianeta e l’ambiente anche come fornitori di servizi indispensabili per la nostra stessa sopravvivenza, l’insostenibilità di un modello di sviluppo basato sul consumo indiscriminato di qualsiasi risorsa, associati alla necessità di mantenere gli standard di vita nei paesi sviluppati e migliorarli sostanzialmente in quelli in via di sviluppo nel rispetto dei vincoli appena menzionati stanno dando vita a crescenti sforzi per trovare i modi per far quadrare quanto apparentemente impossibile.
Un elemento centrale delle strategie che si stanno implementando in molti paesi del mondo ruota attorno al crescente utilizzo di materie prime rinnovabili come via d’uscita da un modello di sviluppo quasi esclusivamente basato su risorse non rinnovabili, come il petrolio.
La prima strada che è stata percorsa in questa direzione – e che tutti ormai conoscono – è quella dell’energia. Nel tentativo di lasciarsi dietro alle spalle carbone, petrolio, gas e nucleare, le energie rinnovabili (e.g. solare, eolico, idrico, biomasse) hanno raccolto grandissimo interesse ed enormi risorse finanziarie riuscendo a far registrare progressi veramente formidabili.
Solo da poco tempo, a seguito di questa crescita, si è sviluppata una doppia sensibilità. Da una parte si è iniziato ad associare molto opportunamente al termine “sostenibile” anche quello “rinnovabile”. L’uso di una risorsa potenzialmente rinnovabile non è di per sé, automaticamente, sostenibile nel medio-lungo periodo.
Dall’altra parte, si è iniziata a diffondere la convinzione che estrarre solo energia dalla biomassa equivale a coglierne solo un aspetto e neanche il più remunerativo. La complessità di questa materia prima si presta all’estrazione di una quantità potenzialmente enorme di suoi componenti a maggior valore aggiunto che possono alimentare industrie esistenti e farne nascere di nuove.
Ha cominciato così a farsi largo il concetto di “utilizzo a cascata” della materia prima, che prevede l’estrazione di tutte le sue componenti a maggiore valore aggiunto dalla biomassa sino alla valorizzazione energetica del solo residuo alla fine del processo.
Parallelamente si è diffuso il termine di bioraffineria come l’impianto che realizza questo processo in maniera sostanzialmente equivalente a quello che una raffineria tradizionale fa col petrolio, dividendolo nelle sue componenti principali dalle quali partono intere catene del valore non solo energetiche (benzina, diesel, gpl, oli combustibili vari) ma anche rilevanti per l’industria manifatturiera (in primis le materie prime per la plastica, ma anche asfalto, fertilizzanti, lubrificanti, paraffina, elastomeri).
Data la complessità della biomassa si è partiti ad utilizzare come materia prima i composti più semplici, come gli zuccheri (da canna da zucchero o barbabietola) o gli amidi (dai cereali) dai quali era possibile ricavare, ad esempio, la materia prima per le bio-plastiche. Il caso più noto in Italia è costituito dal Mater-Bi, una famiglia di bio-plastiche prodotte da Novamont a partire da componenti vegetali, come l’amido di mais, e polimeri biodegradabili da materie prime rinnovabili e non, dal quale si producono, anche ma non solo, gli shopper biodegradagbili resi obbligatori dalla legge in Italia.
Materia prima a costi molto più bassi
Benché la quantità di materia prima organica richiesta per tali lavorazioni sia sostanzialmente insignificante rispetto alle enormi quantità di biomassa richieste per la produzione energetica, non ha mancato di sollevare allarmi relativi al possibile conflitto alimentare. A fronte di quasi un miliardo di persone che soffrono la fame, ha senso usare del cibo per fare sacchetti di plastica? I termini della questione sono decisamente più complessi di quanto la risposta istintiva farebbe pensare, ma la loro articolazione è poco efficace nell’essere convincente e quindi si è iniziato a guardare con crescente interesse allo sviluppo di bio-raffinerie che utilizzassero come materia prima della biomassa che non avesse applicazioni alimentari, possibilmente prodotta su terreni marginali.
Altri motivi spingono evidentemente in questa direzione. Innanzitutto un problema di quantità: pensare di ri-basare molte produzioni manifatturiere su materie prime rinnovabile richiede la garanzia di disporre di quantità significative di materia prima, in maniera stabile nel tempo e con meccanismi di prezzo chiari. Un secondo motivo è il prezzo: passare da prodotti agricoli con un proprio mercato a scarti agricoli e industriali, sottoprodotti, addirittura rifiuti organici, permette di accedere a materie prime ad un costo molto più basso.
Nello stesso tempo, l’utilizzo di una materia prima sempre più varia, variabile (come i rifiuti) e complessa, alza significativamente l’asticella della complessità tecnica e scientifica dei processi. Complessità che raggiunge il suo apice quando si parla di una bio-raffineria basata su materiali lignocellulosici, ovvero sulla biomassa più abbondante e complessa disponibile (legno e suoi residui, paglia, scarti agricoli, ecc.).
La complessità di questa materia prima è dovuta alla complessità della struttura delle cellule delle piante, composta da cellulosa (un polimero glicogeno lineare e molto cristallino), emicellulosa (un copolimero ramificato) e lignina (un copolimero statistico o random) con funzioni di collante e una grande varietà di strutture e componenti.
Riuscire a trasformare la complessità di questa materia prima in elementi di base e composti ad alto valore aggiunto è una sorta di pietra filosofale della bioeconomia. Potenzialmente, la complessità di una sostanza come la lignina aprirebbe nuove opportunità allo sviluppo di numerosissime catene del valore, ma al momento gli sforzi sono concentrati ancora nella fase di ricerca. La lignina, di fatto, è usata per produrre energia, vanilina (ma rappresenta un mercato piccolissimo) e oggetto di studi e ricerche estremamente ampi (ad esempio per lo sviluppo di nuovi bio-compositi) ma che non hanno trovato ancora applicazioni industriali significative che riguardano combustibili, prodotti chimici, polimeri e materiali.
I paesi scandinavi, ricchi di legna, sono ovviamente in prima fila in questi studi, tanto che in Svezia il progetto “Biorefinery of the future” è partito quasi 20 anni fa, ma anche altri paesi si stanno muovendo in maniera importante. Ne è un esempio significativo il BioEconomy Cluster con sede a Leuna (Germania) che dal 2012 è un “Leading Edge Cluster” del ministero federale dell’Educazione e della Ricerca. Questo cluster, che nasce per ottimizzare lo sfruttamento delle grandi foreste di faggio presenti in zona attraverso la produzione di energia, prodotti chimici e materiali innovativi, in tre anni è riuscito a coinvolgere diverse decine di partner tra imprese ed enti di ricerca e dando vita a un portafoglio di ricerche superiore agli 80 milioni di euro.
Un ulteriore passo del suo sviluppo che dimostra non solo l’importanza di una dimensione adeguata a supportare l’impegno di queste ricerche ma anche la necessità di aggregare risorse e competenze diversificate, è stata la recente alleanza strategica del BioEconomy Cluster con altri tre cluster di rilevanza europea, quali Biobased Delta (Olanda), BioVale (UK) e IAR (Francia).
La situazione italiana
Quale è la situazione in Italia? A parte il caso di Novamont, che con la joint venture Matrica in Sardegna si è allargata oltre l’utilizzo di materie prime alimentari, ha fatto molto parlare di sé l’inaugurazione a Crescentino (Vc) nel 2013 da parte di Biochemtex (gruppo Mossi&Ghisolfi), del primo impianto al mondo per la produzione di biocarburanti (metanolo) di II generazione. Entrambe le esperienze rappresentano casi di eccellenza a livello mondiale come è confermato dal fatto che l’unico “flagship project” finanziato a livello europeo dal JTI Bio-Based Industries è a guida Novamont.
Purtroppo il resto del sistema produttivo italiano resta al palo mentre in Europa un numero crescente di imprese di ogni dimensione investe con decisione in questa direzione. Al nostro paese non manca nulla per seguire questa strada: abbiamo un’eccellente infrastruttura di ricerca, ampie disponibilità di biomassa e settori manifatturieri che possono beneficiare da questo nuovo approccio quali ad esempio chimico, agroalimentare, farmaceutico, mangimistico, cosmetico, dei materiali.
Quello che manca sembra essere la capacità di fare sistema, indispensabile per affrontare una sfida al di là delle capacità di un qualsiasi singolo giocatore. Come dimostrano i casi citati in precedenza di cluster esteri e delle loro alleanze, l’elemento cruciale è quello di avere una visione comune attorno alla quale aggregare risorse e competenze.
Purtroppo sinora questa è stata la grande assente nel nostro paese, rischiando di minare gravemente la nostra capacità di competere nel futuro in quello che risulta essere uno dei settori maggiormente dinamici e concorrenziali dei prossimi decenni.
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