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era stato in
gran parte già
sviscerato, all’indomani dell’accordo
sul budget Ue
2014-2020. Così la conferenza
stampa convocata dal ministro
uscente Mario Catania
per illustrare l’esito del
negoziato sulla riforma Pac
è stata più che altro l’occasione
per rassicurare il mondo
agricolo sul futuro. «Al
prossimo ministro basterà vigilare
che nella fase finale
della trattativa tra Europarlamento,
Consiglio e Commissione
non ci siano passi indietro
per assicurare un
buon accordo all’Italia», dice
Catania ricordando come
il compromesso raggiunto
la scorsa settimana dal Consiglio
agricolo Ue «fino a
pochi anni fa avrebbe rappresentato
un accordo definitivo
da trasporre in testi regolamentari.
Oggi invece,
con la codecisione, servirà
l’assenso dell’Europarlamento
». Il compito di trovarlo
è affidato alla presidenza
di turno irlandese (per
l’Agricoltura il ministro Simo
Coveney), che parteciperà
al cosiddetto «trilogo», insieme
a Commissione e Parlamento
Ue per dare alla riforma
il suo assetto definitivo.
Le posizioni non sono
lontanissime, soprattutto se
si guardano considerando i
rispettivi punti di partenza. I
ministri dei 27 chiedono innanzitutto
un processo di
convergenza interna più graduale.
Prima di arrivare al
fatidico flat rate nel 2019, è
necessario partire con una
quota del 10% (invece del
40 proposto dalla Commissione)
di aiuti nazionali da
livellare. Soprattutto, servirà
una delega più ampia per
gli Stati membri nella definizione
della figura dell’agricoltore
attivo al quale riservare
i premi, «un correttivo
fondamentale nel nuovo regime
di aiuti disaccoppiati»,
spiega Catania risalendo alla
ratio della misura, per la
quale il Consiglio chiede
l’eliminazione del paletto
posto dalla Commissione
sul rapporto tra aiuti percepito
e reddito globale dell’impresa
(i primi inferiori al
5% del secondo). «Si tratta
– dice il ministro – di un
passaggio importante: la distinzione
va fatta sul singolo
soggetto e non sull’attività,
come pensa invece il Parlamento
». Sul punto un accordo
non sarà comunque
difficile da trovare.
Più complicato invece si
annuncia il compromesso
sulla delicatissima questione
del capping, il tetto agli
aiuti alle grandi imprese.
Quello di 300mila euro chiesto
dal Parlamento (appoggiato
dalla Commissione)
con forti tagli a partire da
150mila euro. I ministri si
rifanno al testo del Consiglio
europeo che delega ai
singoli partner la decisione
di imporre eventuali scaglioni.
Una soluzione realistica,
visto che il tetto ai premi
resta una battaglia a forte
valenza simbolica sulla quale
però nessuno (meno che
mai l’Europarlamento) vuole
alzare le barricate bloccando
la riforma. Poi la Germania
non lo vuole, e quindi
non si farà.
Sul greening invece le
complicazioni sono di altro
tipo. Nel senso che alla fine,
tra eccezione ed esenzioni,
il problema non sarà trovare
un accordo ma spiegare la
misura alle imprese. La proposta
del Consiglio, tarata
come quella di Strasburgo
sulle dimensioni aziendali,
propone tre livelli di applicazione,
considerando misure
equivalenti gli impegni agroambientali
del Psr (ci sarà il
piano unico nazionale) o gli
schemi di certificazione ambientali
nazionali.
Il resto sono dettagli sui
quali l’accordo è davvero
scontato: i trasferimenti titoli
potranno avvenire solo tra
agricoltori attivi; la quota di
aiuti accoppiati sale dal 10 al
12% (con l’eccezione del tabacco);
gli Stati membri potranno
attivare un ulteriore
pagamento per i primi 30 ettari
dell’azienda, fino al 30%
del massimale nazionale.
L’ultimo appello però il
ministro lo ha riservato ai
produttori di latte: a pochi
giorni dalla chiusura della
campagna va fatto ogni sforzo
per frenare la produzione,
e risparmiare all’Italia
l’ennesima multa-beffa.