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La riforma Pac 2014-2020 ha lasciato agli Stati membri un ampio margine di manovra.
Fernando Miranda, presidente del Fondo spagnolo di garanzia agraria (Fega), l’equivalente della nostra Agea, fa il punto sui negoziati per l’implementazion della riforma in Spagna. Di seguito una sintesi dell’intervista realizzata dal settimanale spagnolo AgroNegocios.
Le superfici escluse dagli aiuti potrebbero rientrarvi in futuro grazie al riconoscimento di nuovi diritti o l’accesso alla Riserva nazionale?
Certo, potrebbero accedere alla Riserva nazionale, ma non in forma massiva o in blocco, bensì tramite l’inserimento di qualche giovane agricoltore o di altri casi specifici.
Tutte le condizioni e i limiti per accedere ai nuovi aiuti (agricoltore attivo, attività agricola minima, lista negativa…) porteranno a costituire un “borsino titoli” di pagamento?
Non necessariamente. Gli importi di cui disporremo li suddivideremo col criterio della superficie, come richiesto, nel 2015. Sapremo, ad esempio, quanti titoli detengono coloro che richiedevano aiuti per il pascolo senza possedere in realtà nessun allevamento, o conosceremo la superficie o gli importi percepiti al di sotto dei 300 euro.
Però non si andranno a creare dei borsini specifici: di fatto gli importi verranno ripartiti tra coloro che già hanno accesso al regime di aiuti, nell’ambito dell’area in cui avevano avuto origine. In altre parole, se in un’area ci saranno dei richiedenti che rinunciano, gli importi non richiesti verranno redistribuiti tra i beneficiari di quella stessa area.
Allevatori e non
Quanti sono gli attuali beneficiari che, senza essere allevatori, percepiscono gli aiuti al pascolo e potrebbero essere esclusi dai nuovi aiuti?
Non lo sappiamo con esattezza. Quel che è certo, invece, è che tutti ci troviamo d’accordo sul fatto che il problema dev’essere risolto. L’attuale sistema, in certi settori agroindustriali (barbabietola da zucchero, pomodoro da industria, cotone…), ha fatto sì che, con il disaccoppiamento, si generassero diritti di alto valore economico su superfici di valore molto basso. Perlopiù si tratta di superfici a pascolo, su cui però non insiste alcuna attività. Abbiamo voluto risolvere alla radice questa situazione, non solo per la considerevole superficie implicata, ma soprattutto per dare visibilità al sistema.
Il problema in ogni caso si risolverà depennandoli dalla prima assegnazione dei diritti, ma anche esigendo, in seguito, che coloro che presentano richiesta di aiuto abbiano un’attività agricola o zootecnica.
Chi non rientra nella figura di agricoltore attivo o non conduce un’attività agricola minima non avrà quindi diritto ai nuovi aiuti?
Credo che sia questo il grande cambiamento introdotto dalla nuova Pac. L’elemento più qualificante è proprio l’attività agricola, l’importanza che le viene data. Adesso tutti lo danno per acquisito, ma a suo tempo, nel 2005, il fatto di pagare qualcuno per non fare nulla fu molto contestato. È proprio questo il messaggio che vogliamo evitare e, viceversa, da mettere in risalto: si andrà a pagare solo a fronte di una attività agricola realmente esistente.
Facciamo un esempio: un proprietario che affitta i terreni perché non vive di quello, avendo la sua attività principale in città, oppure perché già in pensione, e che però finora ha percepito il pagamento unico, potrà essere considerato agricoltore attivo e continuare ad avere diritto al nuovo pagamento di base?
Se un terreno è in affitto, ha diritto agli aiuti il locatario, non il proprietario o locatore, che non lo lavora. Tocca a me, affittuario, chiedere gli aiuti indicando così qual è la mia relazione economica, mediante il canone di affitto, con il proprietario. Quello che vogliamo è vincolare il richiedente e beneficiario con l’esercizio effettivo dell’attività economica che c’è dietro.
Nuove società
Crede che molti beneficiari di aiuti da 300 euro o meno si metteranno in società per continuare a percepirli?
Stiamo lasciando loro il tempo per farlo. Ci sarà chi ci riesce e chi magari no, oppure chi lascia perdere perché non ne vale la pena. La cifra media percepita al di sotto di questa è di 190 euro o poco più. Un importo irrisorio, erogato per un’agricoltura occasionale, nemmeno possiamo chiamarla a tempo parziale, un importo che di fatto non modifica gli introiti del beneficiario.
Ci sono villaggi dove le famiglie si sono suddivise gli alberi di olivo: se ciascuna percepisce meno di 300 euro, è venuto il momento di mettersi assieme e presentare una domanda unica.
In altri casi abbiamo superfici agrumicole davvero minime, dove può valere la pena associarsi per gestirle in comune, in modo da superare la cifra minima di 300 euro e continuare a percepire gli aiuti. In realtà non sarà erogato meno denaro, è assai probabile che molti tra coloro che percepiscono una cifra più bassa finiscano con l’organizzarsi mettendosi assieme.
Questo favorirà anche la crescita di un’agricoltura di maggiori dimensioni. L’obiettivo non è solo l’efficienza e una semplificazione burocratica, ma anche far passare il messaggio che vogliamo migliorare la dimensione delle aziende agricole spagnole.
C’è chi giudica elevato il tetto massimo di 300.000 €/azienda (capping), specie considerando che è possibile scontare il costo del lavoro (salari e stipendi corrisposti dal beneficiario) e il pagamento ecologico (greening).
Siamo in attesa di un accordo col Parlamento europeo sul Quadro finanziario 2014-2020. 300.000 € è poco? È molto? È la proposta iniziale della Commissione e a quella ci siamo attenuti. La nostra opinione è che sia una soglia ragionevole, perché molte imprese agricole, nel vero senso del termine, che fanno davvero agricoltura potrebbero trovarsi in difficoltà con un tetto più restrittivo. Nell’elenco del Fega ci sono aziende che percepiscono più di 300.000 euro: muovono un consistente volume di lavoro e danno impiego a molte persone, e perciò gli aiuti sono superiori a questa cifra. In altre parole, c’è un’attività agricola che li giustifica. Su questo punto c’è stato il consenso unanime di tutte le Comunità Autonome, perciò crediamo si tratti di una scelta sensata.
Aiuti anche alla Chiesa?
C’è la possibilità di allungare la “black list” dei beneficiari, ad esempio ai terreni in mano ai Comuni o terreni di proprietà della Chiesa?
Naturalmente non è che il nostro proposito sia di togliere aiuti alla Chiesa. Non è mai accaduto che un beneficiario abbia richiamato la mia attenzione per il solo fatto di essere un’istituzione religiosa. L’importante è che in effetti conduca realmente un’attività agricola o di allevamento.
Quando abbiamo deciso di escludere dagli aiuti un aeroporto, un’azienda di gestione delle acque o di trasporti ferroviari o un’immobiliare con un terreno rurale da urbanizzare e così via, è stato perché era chiaro che i terreni venivano utilizzati per quelle tipologie di attività, e non per chiedere sostegno all’agricoltura.
Stiamo verificando se ci sono altre tipologie di aziende con caratteristiche evidentemente simili. Ad esempio, istituzioni pubbliche che conducono un’attività agricola o di allevamento e sono perfettamente sane e generano molta occupazione: perché escluderle dagli aiuti quando ci sono Comuni che danno in concessione a 90 abitanti dei lotti di terreni agricoli?
Non si pensi che andiamo a mettere insieme un elenco interminabile di aziende; sarà invece qualcosa di simile a quello già proposto dalla Commissione. Se vi figurasse un’istituzione religiosa o un convento che gestisce un’attività agricola nulla vieterebbe che continuasse a percepire gli aiuti.
Per non perdere i fondi comunitari, è possibile trasferire fondi tra i programmi di Sviluppo Rurale nazionali e quelli delle Comunità Autonome, si potrebbe fare anche tra Comunità Autonome?
Quel che vogliamo ottenere è evitare la situazione che si è prodotta nell’attuale periodo finanziario: ci sono Comunità Autonome che hanno difficoltà ad attuare i loro programmi di sviluppo rurale, ma nessuno cede il passo rinunciando al denaro che pure sa che non riuscirà a utilizzare.
Si vuole generare un meccanismo che non sia soggetto alla volontà delle parti, ma il più automatico possibile, in modo che se una Comunità si rende conto di non riuscire a utilizzare i fondi inizialmente stanziati, questi possano essere riassegnati ad altre Comunità dotate di una maggiore capacità di realizzazione, senza aspettare che decida di cederli volontariamente.