Frenata Ue sull’etichettatura d’origine dei prodotti alimentari, tra cui latte, passata di pomodoro, succhi di frutta, pasta e riso. Sarebbe infatti sbilanciato il rapporto costi/benefici legato all’introduzione dell’origine in etichetta che – secondo i dossier europei – è quindi opportuno rimanga un’informazione facoltativa, rimandata, come è stato finora, alla scelta (e alla convenienza) di ciascun operatore.
È questa in sintesi la conclusione del Food Chain Evaluation Consortium (FCEC) che – per conto della Commissione Ue e come previsto dal Reg. (Ue) 1169/2011 – avrebbe preso in considerazione diversi fattori e parametri di valutazione, compreso il desiderio del consumatore a voler conoscere l’origine delle materie prime e degli alimenti.
Un tema delicato, rimandato al Consiglio dei ministri dell’agricoltura Ue, che (insieme all’impasse sede dello stabilimento) tira in ballo la competitività degli operatori agroalimentari, soprattutto delle Pmi.
La scelta del consumatore
Secondo lo studio FCEC – relativo agli alimenti non trasformati, mono-ingredienti ed ingredienti che rappresentano più del 50% di un alimento – l’indicazione dell’origine non sarebbe tra i primi criteri di scelta dei consumatori Ue (il primo è il prezzo) ma per il 42,8% degli intervistati l’etichettatura d’origine (intesa come informazione a livello di paese) sarebbe un utile criterio di scelta dei prodotti nazionali.
Per quanto riguarda poi la disponibilità dei consumatori a pagare per avere informazioni sull’origine – reale indicatore di fattibilità del progetto – si è stimata un’elevata tendenza alla spesa, fino a +40-50% per le informazioni a livello di paese. Un interesse confermato anche a livello nazionale dai risultati della consultazione pubblica online organizzata dal Mipaaf: indicano che 9 cittadini su 10, nel compilare il questionario, hanno chiesto di leggere l’origine in etichetta.
Non solo costi di tracciabilità
Le imprese agroalimentari tendono a diversificare l’origine delle materie prime per ridurre al minimo i costi di produzione ma indicarla di volta in volta in etichetta comporterebbe, secondo l’analisi FCEC, un incremento (fino al 30%) dei costi di produzione.
E, stando al rapporto Ue, i maggiori costi di gestione dell’informazione d’origine (nome dello Stato membro o del Paese terzo) alla fine si ‘ribalterebbero’ sui prezzi di vendita.
C’è da dire che la relazione FCEC (al di là dei maggiori oneri necessari per adeguare i sistemi di registrazione degli approvvigionamenti e del sistema di tracciabilità di ‘dettaglio’) ha valutato anche l’impatto dell’origine obbligatoria sui mercati e gli scambi internazionali: i Paesi terzi, secondo il FCEC, avrebbero espresso, almeno per alcune materie prime, dei timori in merito alla potenziale perdita di esportazione nell’Ue come conseguenza di un ‘dirottamento’ della scelta d’acquisto dei consumatori europei. In altre parole, il ‘rischio’ sembra sia anche quello di un orientamento commerciale più nazionalistico nel caso i consumatori fossero nelle condizioni di dover leggere (in maniera chiara e sistematica) l’origine in etichetta.