Il parco macchine nazionale per le seminatrici (a righe o di precisione) è verosimilmente uno dei più anziani del mondo, costituito in larga parte da macchine di concezione superata.
Una situazione determinata dal ridotto tempo di impiego durante l’anno, tanto per le seminatrici a righe quanto per quelle di precisione. La semina è di norma un’operazione relativamente rapida, al massimo un’ora per ettaro in pianura, e le aziende agricole con superficie maggiore di 50 ettari sono una rarità (circa il 10% del totale). Se si aggiunge che spesso il piano colturale prevede l’impiego di due seminatrici – una a righe per le semine invernali e una di precisione per le primaverili – si capisce come il grado di utilizzazione annua si attesti in media sulle 20-30 ore. Sono valori davvero bassi, se confrontati con quelli totalizzati da un contoterzista, le cui campagne di semina occupano mediamente da 100 a 500 ore annue. La tabella 1 mostra che quando l’impiego è nettamente insufficiente, si possono verificare due alternative:
1. il costo della semina è superiore alla tariffa del contoterzista: seminare in proprio diventa un lusso difficilmente sostenibile;
2. l’ammortamento della macchina deve protrarsi per decenni, con il risultato di dover lavorare per anni con una seminatrice superata dal progresso tecnico.
Dal confronto si evince che, nonostante il valore della macchina operatrice sia ripartito su ben 30 anni, il costo per ettaro della sola seminatrice – escluso il trattore – rimane molto più elevato (quasi il doppio) di quello praticato dal contoterzista. È bene notare che i calcoli sono stati fatti sulla base di un impiego annuo di 50 ore, che per una larghezza di lavoro di 3 metri, corrispondono a settanta ettari seminati; se fosse stata considerata una superficie inferiore (e quindi un impiego di 20-30 ore annue) le differenze sarebbero state ancora più evidenti.
Dice un antico proverbio che chi ha i buoi di proprietà può arare il lunedì, o quando gli pare; ma la semina è un’operazione così veloce ed estemporanea che la gestione in proprio diviene tanto costosa da renderla antieconomica, anche considerando il fattore tempestività. La stessa tabella ci mostra infatti che con una macchina da professionista – 6 metri di lavoro con guida satellitare – i tempi di lavoro sono più che dimezzati; per seminare 70 ettari bastano meno di 24 ore, contro i 5 giorni necessari con la seminatrice da 3 metri, tenuto conto delle ore di luce.
Più complessa è la questione del periodo di ammortamento, perché nessuno si azzarderebbe mai a fare previsioni a 30 anni; se pensiamo a quanto è cambiato il quadro economico e tecnologico negli ultimi dieci, ci rendiamo conto che si tratta solo di un artificio per cercare di far tornare i conti.
Terzisti o in proprio?
La Tab. 2 ci mostra l’incidenza dei costi di esercizio: il puro costo per la gestione in proprio e il prezzo medio praticato dalle imprese agromeccaniche per una partita di 70 ettari da seminare con la macchina da 3 metri, e di 150 per quella da 6. Il confronto è sempre perdente, anche considerando i 30 anni di ammortamento: 50.000 euro (senza considerare il trattore) potrebbero creare un brutto scompenso anche in un’azienda da 150 ettari, nel caso in cui si decidesse di cambiare l’indirizzo produttivo. In conclusione, la semina in proprio è un’operazione che può convenire solo alle aziende agricole con superfici paragonabili a quelle dominate da un contoterzista medio.
Nonostante tutto, però, anche aziende estese stanno riconsiderando – a ragione – questa ipotesi, soprattutto per i cerealicoltori che hanno optato per la semina diretta. La rinuncia alla lavorazione del terreno comporta, infatti, una netta riduzione del numero delle ore di lavoro del trattore di grande potenza, il cui costo orario aumenta a dismisura passando, per esempio, da 1.000 a 250 ore. L’adozione della semina su sodo, per chi ha già investito diverse centinaia di migliaia di euro in mezzi di trazione, aratri e macchine per la preparazione del letto di semina, dà infatti luogo a un risparmio assai limitato (manodopera, gasolio e, in parte, oneri di manutenzione). Per quanto possa sembrare paradossale, considerando l’andamento del mercato dell’usato, in questi casi conviene dismettere parte del parco macchine e rivolgersi al terzista, piuttosto che tenersi un capitale di fatto inutilizzato.
Rovesciando i termini del problema, ci sono altresì molte aziende agricole che scelgono di non applicare certe tecnologie proprio perché vincolate da investimenti già avviati, che non possono dismettere; a volte questa impossibilità a riconvertire l’ordinamento aziendale deriva da obblighi normativi, come avviene con le macchine acquistate tramite i Psr. Non dimentichiamo che il parco macchine necessario per la meccanizzazione completa (semina con lavorazione, esclusa la raccolta) vale almeno 2.000 €/ha; passare alla semina diretta potrebbe richiedere un ulteriore investimento, tenuto conto dei vincoli citati. In questo caso, però, le 400 ore di lavoro del trattore principale nella gestione convenzionale (sempre nell’ipotesi di 70 ettari) si riducono a 100 scarse con la semina su sodo; né si può pensare di aumentare le ore impiegandolo per lavori complementari, considerato il peso.
Le considerazioni fatte spiegano perché la semina su sodo sia quasi sempre affidata ai contoterzisti, i quali evitano all’agricoltore di doversi sobbarcare nuovi oneri finanziari per acquistare macchine di dubbia convenienza economica; se infatti la semina su terreno lavorato comporta i costi indicati nella Tab. 2, figuriamoci dove si andrebbe a finire con una seminatrice da sodo, che costa circa il triplo di una convenzionale, a parità di larghezza di lavoro.
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