L’olivo costituisce la coltura arborea da frutto più diffusa in Italia, occupando una superficie agricola di oltre 1 milione e 100mila ettari. L’80% di essa è concentrata nelle otto regioni del Mezzogiorno; la sola Puglia ospita esattamente un terzo dell’intera superficie nazionale.
I tre quarti dell’olivicoltura italiana sono di tipo tradizionale, fondati su circa 500 varietà coltivate in asciutto con basse densità di impianto, inferiori a 200 alberi per ettaro, e con limitato livello di meccanizzazione, legato sia a motivi strutturali che varietali, ma anche sociali e culturali. Tutto questo comporta da un lato modeste produzioni areiche di olio, inferiori a 0,6 t/ha, e dall’altro costi di produzione elevati, superiori a 5-7 €/kg di olio extra vergine. Senza contare poi la quota considerevole di olio lampante che proviene dal sud della Puglia e della Calabria.
Il restante 25% della superficie nazionale risponde invece a criteri intensivi di coltivazione, fondati essenzialmente sull’aumento delle densità di impianto, anche fino a 600 alberi per ettaro, irrigazione e raccolta meccanica con scuotitore di tronco. Le produzioni di olio per ettaro possono anche triplicare: ciononostante i costi di produzione non scendono sotto i 3,5 €/kg di olio.
Confrontando questi costi con le quotazioni nazionali dell’olio all’ingrosso, che quest’anno nuovamente si aggirano intorno a 4 €/kg, è evidente la situazione di sofferenza che affligge l’intero comparto produttivo italiano, supportata col sostegno al reddito proveniente dalla Pac, ormai sempre più esiguo. Vi è solo una piccola porzione di olivicoltura nazionale, stimata intorno al 7-10% e riferibile ai marchi biologico e Dop/Igp (ve ne sono più di 40), che riesce a spuntare prezzi superiori al costo di produzione.
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