A livello mondiale un mercato sicuramente in ripresa è quello della vendita delle barbatelle, con l’Italia che domina la produzione dopo la crisi che negli anni scorsi ha colpito la Francia e la notevole diminuzione del numero dei vivaisti.
Nonostante il Ministero delle Politiche agricole abbia pubblicato on line da qualche mese il registro nazionale delle varietà della vite (affidato al Centro di ricerca per la Viticoltura del Consiglio per la Ricerca e la sperimentazione in Agricoltura, Cra-Vit), non esistono dati ufficiali e il quadro statistico della produzione di barbatelle rimane abbastanza anonimo (http://catalogoviti.politicheagricole.it/home.php).
Riferendoci ai dati statistici pubblicati sul sito www.devulpeetuva.com, a cura di Gianfranco Tempesta e Monica Fiorilo, si evince che Italia e Francia attualmente esportano, a livello mondiale, circa 52 milioni di barbatelle (principalmente innestate), quaranta la prima e dodici la seconda. Alcuni Paesi a cultura islamica stanno tentando un ritorno alla viticoltura per uva da vino, abbandonata con la fine della colonizzazione europea, allo scopo di soddisfare le richieste dei turisti che vi soggiornano (Marocco, Tunisia). Altri, come la Cina, rivolgono una particolare attenzione alle produzioni locali in risposta a una categoria di consumatori che, raggiunto uno status sociale ed economico privilegiato, rivolgendosi al vino da Vitis vinifera, quale vera alternativa a bevande chiamate “vino” non rigorosamente ottenute da uva da vino.
Montagne russe
«Nel mondo del vivaismo oggi, radicato soprattutto nel Nord-est e in particolare in Friuli Venezia-Giulia, siamo come sulle montagne russe – spiega Gianfranco Tempesta, del vivaio Enotria – si creano nuove attività, perché la domanda di alcune varietà è ampia, come Prosecco e Pinot Grigio e creare un vivaio è più semplice di quello che si pensi, ma è in atto un vero e proprio cambio generazionale, con l’abbandono dei pochi ettari posseduti e la perdita dell’esperienza di vivaisti anziani, che non viene assorbita dai giovani. Le novità fiscali non incoraggiano un mercato direi mummificato, perché i diritti d’impianto diventano concessioni dal primo gennaio 2016, quindi non è più un valore iscrivibile a bilancio. Per avere concessioni dalla Regione di competenza l’iter diventa complicato».
Un’ipotesi è quella che il vigneto Italia per uve da vino al 2020 sarà certamente di superficie inferiore ai 540mila ettari, con una ripartizione varietale concentrata su pochi vitigni, peraltro base dei Vqprd (Vini di Qualità Prodotti in Regioni Determinate), motore e vanto della vitienologia italiana.
«La polverizzazione – aggiunge Leonardo Valenti dell’Univesità degli studi di Milano – è la caratteristica comune sia alla viticoltura che alla produzione vinicola italiana – soprattutto nel mondo del vivaismo abbiamo assistito ad una frammentazione, piuttosto che a un’unificazione delle realtà produttive, sempre per la facilità di creare piccole imprese durante i momenti di euforia produttiva. Per spiegarci meglio, in certi momenti vendere 300mila barbatelle di Prosecco, quando la domanda è esagerata, non è certo un problema».
Se fino a oggi didatticamente abbiamo pensato a produrre selezioni policlonali con certe attitudini, oggi il mercato ci impone scelte diverse in termini di quantità e qualità. D’altronde lo sviluppo delle Igt (Indicazioni geografiche tipiche) condiziona le scelte qualitative. Oggi è più facile produrre vini buoni, anche se non raffinati, con rese più elevate e il mercato ricerca piacevolezza, buoni prezzi e quantità.
Logico che i materiali vivaistici sono completamente diversi.
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