«La strada della riduzione dell’impatto ambientale è l’unica percorribile, a fare la differenza è il come: non con scelte ideologiche come quelle ipotizzate nella prima versione del Green Deal ma con un pragmatismo che coniughi produzione e sostenibilità». Paolo De Castro, per tre legislature parlamentare europeo e prima deputato e ministro in Italia, è tra politici e amministratori di vario grado quello che di gran lunga conosce meglio il settore agricolo e agroalimentare.
Dopo le elezioni dello scorso giugno e la recente presentazione dei commissari da parte della presidente Ursula von der Leyen, nessuno meglio di lui può fare il punto sulla nuova legislatura europea che per Parlamento e Commissione si apre con una priorità in grado di decidere i destini dell’agricoltura europea e italiana per i prossimi anni: scrivere la nuova Pac.
Dopo 15 anni non è più parlamentare europeo. Agricoltura e agroalimentare italiani hanno perso un riferimento importante in Europa.
«Dopo tanti anni bisogna lasciare il campo ai più giovani. Ma continuerò a dedicarmi a questo straordinario settore così come ho fatto per gran parte della mia vita. Ovviamente in forme diverse, dato che non sarò nelle istituzioni. Potrò ancora dire la mia e fornire suggerimenti e indicazioni a chi me lo chiederà».
Ma lo farà da Bologna o da Bruxelles, magari come consulente di qualche commissario?
«Per ora sono tornato a insegnare Economia e Politica agraria all’Università di Bologna, dove sono professore ordinario. Poi si vedrà».
Riavvolgiamo il nastro della sua esperienza a Strasburgo. I risultati di cui va più fiero e una cosa che non è riuscito a fare ma avrebbe voluto.
«Da presidente della Commissione Agricoltura sono stato tra i protagonisti della riforma Ciolos della Pac, quella che introdusse il greening e quindi fece da apripista per preparare gli agricoltori ai temi ambientali che poi hanno avuto il loro apice con il Green Deal e l’ultima versione della Pac. Sono stato tra i protagonisti del “Pacchetto qualità”, quello che ha introdotto la programmazione produttiva per i formaggi, poi estesa a tutti i prodotti Dop e Igp. Una novità giuridica che ha permesso a tutto il sistema di controllare l’offerta e garantire un prezzo del latte più alto per gli allevatori. Poi ho lavorato alla direttiva contro le pratiche sleali e al nuovo Regolamento sulle Indicazioni geografiche. E ancora, sono stato relatore del Next generation Eu per l’agricoltura: un regolamento importantissimo perché ha permesso di recuperare 25 miliardi di euro che erano stati sottratti al bilancio Pac».
E poi se non sbaglio si è occupato anche del Regolamento Omnibus.
«Certo, un passaggio fondamentale che ha aperto all’organizzazione di secondo livello con le Aop. Penso alla Pera dell’Emilia-Romagna Igp che è stata una delle prime ad aver attuato l’Omnibus con la definizione di quantità e prezzi del prodotto che dà una forza incredibile alla parte produttiva».
Ma per gestire questa forza bisogna essere organizzati e in Italia ci sono vaste aree che non lo sono.
«Soprattutto nel Mezzogiorno. Questo è un problema perché al Sud non sfruttano nemmeno l’Ocm, tant’è che le Dop e Igp, salvo qualche rara eccezione come la Mozzarella di Bufala Campana Dop sono tutte al Centro-Nord. Questo non per la mancanza di prodotti ma per l’incapacità degli imprenditori di aggregarsi».
Lei è stato anche parlamentare e ministro dell’Agricoltura in Italia. È più facile lavorare a Roma o a Strasburgo?
«Sicuramente a Strasburgo, perché le regole di funzionamento del Parlamento europeo permettono a chi ha una competenza o un ruolo la possibilità di fare le cose e portare a termine il percorso legislativo dei provvedimenti».
Cosa pensa del nuovo commissario europeo all’Agricoltura Christophe Hansen?
«È bravo, lo conosco perché ho lavorato con lui in questi anni, farà sicuramente bene e l’Italia avrà un rapporto privilegiato con lui grazie alla supervisione del vicepresidente esecutivo Raffaele Fitto».
Parlamento e Commissione appena insediati dovranno subito mettersi a lavorare per scrivere la nuova Pac. Il tema è trovare un equilibrio tra l’aspetto ambientale e quello produttivo.
«Un compito non facile ma nel Rapporto sul Dialogo strategico per l’agricoltura da poco presentato dal sociologo Peter Strohschneider ci sono considerazioni che vanno in questa direzione. Anche se sono molto generali e c’è poco di concreto. Si parla di innovazione ma non si citano le Tea. È un testo con poco coraggio, tant’è che ha messo d’accordo tutti: dagli ambientalisti alle organizzazioni degli agricoltori».
Quindi gli agricoltori dovranno convivere con ecoschemi, dosi giornaliere e medie mensili, rotazioni imposte?
«Beh, bisogna essere chiari: i dettagli delle misure ambientali come gli ecoschemi non sono stati scritti a Bruxelles, bensì nei singoli Paesi. Quindi le difficoltà sorte da noi sono un problema nazionale. L’Italia nel Psp ha deciso di fare cinque ecoschemi, la Francia ne ha fatti nove. L’abbondanza di ecoschemi facilita le aziende agricole ad applicarne uno che meglio si adatta alle loro caratteristiche. I problemi che abbiamo avuto noi con la zootecnia ce li siamo in gran parte creati in casa perché la Pac concedeva un’ampia flessibilità di applicazione agli Stati membri e noi non sempre l’abbiamo usata bene».
Ma dopo le proteste degli agricoltori nelle piazze di tutta Europa qualche modifica anche a livello di architettura della Pac ci sarà.
«Non credo ci sarà una rivoluzione. Probabilmente la flessibilità aggiuntiva con la diversificazione al posto della rotazione colturale, quindi di fatto tornare alle vecchie regole e l’esenzione di due anni dalle aree Efa potrebbero diventare stabili. Poi immagino che ci saranno tre direttrici principali sulle quali saranno incanalati gli aiuti: gestione del rischio, aggregazione e promozione».
Oltre che sulle regole si discute di budget. Coldiretti ha già chiesto cento miliardi in più nella prossima Pac. Secondo lei è realistico?
«Me lo auguro, ma cento miliardi mi sembrano una cifra difficile da ottenere. Stiamo alle parole della presidente Von der Leyen che ha detto che non ci saranno tagli. Poi bisogna capire da quale base partiamo».
Cioè?
«Quando diciamo che non ci saranno tagli al budget intendiamo quello attuale con l’aggiunta dei 25 miliardi del Next Gen Eu per l’agricoltura o senza? Perché il bilancio Pac non ha quei 25 miliardi».
I dettagli delle misure ambientali
come gli ecoschemi
non sono stati scritti a Bruxelles,
bensì nei singoli Paesi.
Quindi le difficoltà sorte da noi
sono un problema nazionale.
La Pac concedeva un’ampia flessibilità
di applicazione agli Stati membri
e noi non sempre l’abbiamo usata bene
E poi in questi anni l’inflazione ha galoppato, quindi anche mantenendo lo stesso budget di fatto ci sarebbe un calo degli aiuti.
«Certo, solo per l’inflazione in questi anni si è perso circa il 20%. Ma non sarà facile, inutile illudersi».
I cerealicoltori italiani sono molto delusi, soprattutto chi fa grano duro al Sud.
«La congiuntura è sfavorevole tra avversità climatiche e questioni geopolitiche. Dobbiamo valorizzare di più il nostro prodotto con l’industria della pasta. L’unica soluzione è fare qualità e stringere accordi con l’industria alimentare per pagare di più gli agricoltori e garantire gli approvvigionamenti. Anche per questo è nata Filiera Italia».
A proposito di qualità, le giovani generazioni sembrano meno se non per nulla interessate alle eccellenze dell’agroalimentare italiano.
«Questo è un problema, tant’è che bisogna attivare in fretta il piano d’azione sulle Ig per fare formazione e promozione nelle scuole, ma invertire la rotta non sarà facile».
Anche il biologico sembra avere il fiatone da un po’ di tempo a questa parte. Eppure l’Europa da qualche anno ha fissato un obiettivo ambizioso. Forse troppo?
«C’è stata una flessione dei consumi sicuramente dovuta all’inflazione. Di certo però gli obiettivi fissati dall’Ue non sono in linea con la domanda e questo crea un problema. Bene gli incentivi, ma poi è il mercato che stabilisce la dimensione di un comparto, non si possono stabilire quote a tavolino».
E poi il cambiamento climatico non aiuta la coltivazione con metodo biologico.
«Infatti. Anche per questo bisognerebbe smettere di avere pregiudizi sulle Tea. Proprio il biologico è quello che ne avrebbe più bisogno perché non può utilizzare la chimica di sintesi. Le strade alternative alla chimica ci sono, come la genetica e la precision farming, ma vanno incentivate. Prendiamo i droni: se ne parla tanto ma di fatto non si possono usare nei campi per fare trattamenti di precisione perché mancano le leggi. Questo è un grande tema culturale, tutto il mondo sta andando avanti e noi stiamo fermi».
Nel resto del mondo l’Italia esporta gran parte della sua produzione agricola e agroalimentare. Per questo sono importanti gli accordi commerciali che l’Unione europea sottoscrive. Il Mercosur è bloccato e negli Usa dal prossimo anno potrebbero tornare i dazi se Trump sarà rieletto presidente.
«È una grande preoccupazione perché gli Stati Uniti sono diventati quasi il principale mercato dei nostri prodotti con poco meno di otto miliardi di import Made in Italy, ormai secondo solo alla Germania. Nel 2016 l’amministrazione Trump introdusse dazi per il 25% all’importazione di prodotti agroalimentari europei, anche se su questo l’Ue non può fare molto. Per quanto riguarda gli accordi di libero scambio l’ultimo siglato con la Nuova Zelanda è molto buono per non dire ottimo per le nostre produzioni. Idem per quelli firmati con Giappone e Vietnam. Il Mercosur è strategicamente molto importante perché rischiamo di regalare l’America latina alla Cina. Tuttavia, ci sono ancora molte aree grigie che vanno chiarite. Così com’è dubito si trovi una maggioranza disposta a votarlo nel Parlamento europeo».
Ha molto a che fare con il Sudamerica anche il Regolamento sulla deforestazione. Penso ad esempio a mais e soia.
«Altra questione spinosa. Fu uno dei primi provvedimenti della scorsa legislatura, quando eravamo nella fase “euforica” del Green Deal. Entrerà in vigore il primo gennaio 2025 e prevede che tutti i prodotti che entreranno nell’Unione siano accompagnati da un certificato che garantisca la provenienza da aree non disboscate. Noi importiamo molta soia, mais, oltre all’olio di palma. Paesi come il Brasile non sono in grado di produrre questi certificati perché nelle navi che trasportano le derrate da una parte all’altra dell’oceano non c’è separazione tra lotti di provenienza diversa».
Il ministro Lollobrigida ha chiesto all’Europa un rinvio dell’entrata in vigore.
«Ma non è facile ottenere un rinvio. Servirebbe un altro Regolamento».
E quindi?
«L’Europa non può essere rigida su queste cose perché i tempi sono cambiati. Non siamo più noi a dettare legge nel commercio mondiale quindi se, ad esempio, facciamo troppe storie al Brasile per la soia, quelli la venderanno alla Cina. Ma noi non possiamo farne a meno, la zootecnia europea andrebbe gambe all’aria».
Eppure nella lettera di missione inviata da Ursula von der Leyern al Commissario Hansen c’è la richiesta di lavorare sulla “reciprocità”. Cioè che non deve esserci più distorsione della concorrenza importando prodotti che non rispettano le stesse regole europee. Un tema che sta molto a cuore agli imprenditori agricoli italiani.
«Certo, il principio è assolutamente corretto non possiamo chiedere sacrifici ai nostri agricoltori con standard più elevati e poi non obbligare i Paesi che esportano in Ue a fare lo stesso».
Un consiglio agli agricoltori italiani per affrontare al meglio questa congiuntura difficile.
«Devono organizzarsi, dal punto di vista produttivo, aziendale e commerciale. I problemi in realtà sono più fuori dalle aziende agricole. Fare un buon prodotto non basta. Per vendere creando valore serve una forza contrattuale e una concentrazione dell’offerta. Guarda caso le filiere più organizzate sono quelle dove c’è la differenza di prezzo minore tra prezzo alla produzione e prezzo al consumo. In questo modo si contrastano meglio le pratiche sleali. Gli esempi virtuosi non mancano, dai formaggi Dop alle mele del Trentino. Al Sud c’è ancora molto da fare su questo fronte».
Come vede l’agricoltura europea e italiana nei prossimi anni?
«Il mio auspicio è che nei prossimi cinque anni Commissione, Parlamento e Consiglio europeo immaginino davvero un’agricoltura protagonista del Green Deal e sono convinto che le condizioni ci siano».