Il bio distretto "più grande d'Italia" come l'ha definito l'assessore all'Agricoltura della Regione Marche Mirco Carloni presentando i criteri che porteranno alla definizione dei distretti del cibo nel territorio regionale, non piace a tutti. Soprattutto ai piccoli produttori e al neonato Distretto biologico Terre Marchigiane (110 aziende agricole per 5.200 ettari coltivati in bio), che chiede a Carloni di tornare sui suoi passi.
Anche perché, secondo Aiab Marche, Cna Marche, Bio-Distretto del Fermano-Piceno e Distretto biologico Terre Marchigiane, i criteri per la creazione dell'organismo sarebbero inediti a livello nazionale, oltre che in contrasto con la Legge 27 dicembre 2017, n. 205, articolo 1, comma 499; che disciplina la creazione dei distretti del cibo e li intende come strumenti per incentivare “lo sviluppo locale, la coesione, l’inclusione sociale, la salvaguardia del territorio e del paesaggio rurale [...] con il compito di valorizzare le vocazioni locali”.
Anche le federazioni regionali di Cia, Confagricoltura, Copagri e Legacoop hanno inviato a Carloni una serie di osservazioni per modificare la bozza della delibera con cui saranno fissati i criteri per la creazione dei distretti. Fuori dal coro invece Coldiretti, che per voce della presidente Maria Letizia Gardoni ha espresso apprezzamento per la proposta avanzata dalla giunta regionale.
Soglia di fatturato a 40 milioni? «Un favore alle grandi aziende»
Il punto più contestato è la soglia di fatturato generato da prodotti biologici che l'insieme delle aziende aderenti al distretto devono soddisfare, cioè almeno 40 milioni euro.
«Un parametro costruito solo nella Regione Marche e non riscontrabile negli altri Bio-distretti di altre regioni – scrivono Aiab, Cna, Distretto bio Terre Marchigiane e del Fermano-Piceno – inoltre la cifra appare enorme e spropositata se si pensa alla realtà economica aziendale del biologico marchigiano, costituita prevalentemente da aziende di piccole dimensioni».
«Analizzando il contesto produttivo bio regionale, appare evidente che questo requisito può essere garantito solo dalla presenza di pochissime grandi imprese agroalimentari la cui presenza, all’interno del distretto, avrebbe l’effetto di mera influenza delle politiche di indirizzo – fanno notare Enzo Malavolta, Francesca Petrini, Sara Tomassini e Noris Rocchi tradendo l’originario fondamento alla base dello sviluppo delle filiere corte, in grado di garantire maggiore resilienza nel lungo periodo».
I quattro chiedono dunque alla Regione che venga rispettato lo spirito della normativa nazionale, che i Bio-distretti e distretti biologici già costituiti siano riconosciuti senza indugio, che non vi siano vincoli né di fatturato né di percentuali di Sau per il riconoscimento dei distretti biologici e che i nuovi bio-distretti e distretti biologici possano essere costituiti e riconosciuti nel rispetto del diverse vocazioni locali presenti nel territorio marchigiano.
Concordano sullo stralcio del requisito del fatturato anche Cia, Confaricoltura, Copagri e Legacoop, che chiedono anche di utilizzare come parametri per la creazione dei distretti il numero di 500 di aziende e di 800 di addetti «al fine di non burocratizzare non solo la costituzione ma la gestione stessa del distretto». Inoltre, ribadiscono che occorre inserire la possibilità di costituire distretti di minore entità territoriale (sub distretti) e che per il loro riconoscimento sia obbligatorio aderire al Distretto unico regionale.
Terre Marchigiane: i distretti devono tutelare le piccole realtà
«Un bio distretto deve raccogliere le piccole realtà del territorio e non essere una vetrina per chi ha ambizioni politiche – tuona la presidente del Distretto Terre Marchigiane Sara Tomassini – siamo una realtà formata da 110 aziende agricole biologiche, tre soggetti del settore enogastronomico, 13 amministrazioni comunali contigue, due gruppi di acquisto solidali, tre istituti superiori tecnici agrari e professionali, oltre alla ricerca del Crea che ci ha scelti come unità operativa per un importante progetto. Probabilmente diamo fastidio alle grandi aziende – ragiona Tomassini – ma non rinunciamo a lottare. Speriamo ci sia ancora spazio per il dialogo».