La crisi Russia-Ucraina ha reso evidente che i nodi, nell’economia reale, possono essere rimandati ma alla fine vengono al pettine. In fatto di politica energetica l’Italia ha basato lo sviluppo su un modello di approvvigionamento legato a fornitori terzi e per lo più potenzialmente instabili. Oggi, parlando di sostenibilità e agricoltura, siamo di fronte a un bivio simile a quello affrontato, 35 anni fa, con il referendum dell’8 e 9 novembre 1987 sul nucleare.
La sensibilità dei cittadini sul tema è cresciuta anno dopo anno, portandolo al centro delle attenzioni politiche. Un interesse alimentato anche da uno sfruttamento commerciale da parte di tantissimi operatori in tantissimi campi, dall’elettronica al cibo, dal tessile al manifatturiero, dove la sostenibilità prima che un fatto di responsabilità etica e sociale è stata vista come leva di marketing. Alimentando in questo modo il circolo vizioso della pubblica opinione, che ha così spinto la politica a cercare consenso anche attraverso scelte estreme: la sostenibilità è diventata un obiettivo da raggiungere a ogni costo. Anche mettendo sul piatto meno ettari, meno produzione e meno produttività quale prezzo ritenuto equo per contribuire, come Europa, a qualche punto di miglioramento delle performance globali.
Editoriale di Terra e Vita 21/2022
Abbonati e accedi all’edicola digitale
Se questa era la base consolidata nel decennio 2010-2020, oggi di fronte allo shock della guerra successivo alla pandemia, e di fronte al ciclo inflattivo che aggredisce il reddito reale dei cittadini, siamo esposti al rischio che – di fronte alla mutata sensibilità dei cittadini – si passi da un estremo a quello opposto, cioè al “liberi tutti”.
Il ritorno immediato della Germania al carbone, il sì italiano alle trivellazioni e il dibattito sulla Pac sono i primi segnali di una politica che sembra agire più di pancia che con la testa. Tutto ciò è molto pericoloso in assoluto, nella visione globale, ed è ancor più pericoloso per l’agricoltura europea e italiana, che rappresentano la classica noce nello schiaccianoci.
Le scelte irreversibili non sono ancora compiute. Ed è questo il momento per trovare la via “giusta”. Il concetto è molto semplice: la sostenibilità non può essere abbandonata, ma la centralità deve essere riportata sulla dimensione agricola quale settore produttivo. Infatti, una sostenibilità che penalizza l’agricoltura diventa “non sostenibile”!
Serve quindi una visione in cui l’agricoltura, solida, forte e produttiva – in qualità e quantità – possa essere migliorata anche nelle performance di sostenibilità. Questa è una priorità per tutto il settore primario, comprese le filiere a Indicazione geografica. Due leve sono fondamentali: ricerca e innovazione.
Sono i due motori per spingere in questa direzione. Guidare una riduzione del latte munto per capo, o ridurre il mais prodotto per ettaro, non ha senso se slegato da esigenze qualitative e/o organolettiche. Invece, deve essere possibile produrre il kg di latte, di carne e di uva con meno input chimici, meno acqua, meno emissioni e maggiore fissazione di carbonio. Questo futuro è possibile e la ricerca, in primis le nuove tecniche di miglioramento genetico non ogm, possono dare tanto.
Allo stesso modo diventerà centrale l’assistenza tecnica. Per consentire che le nuove tecnologie e le best practice non rimangano un esercizio per pochi ma diventino una nuova cultura imprenditoriale. Questo è il paradigma che offre equilibrio tra i bisogni, indirizza gli sforzi e trova piena corrispondenza nell’approccio “Climate smart farming” sostenuto dalla Banca mondiale.
In questa nuova visione, invece di essere visti come i soggetti da punire, gli agricoltori possono diventare la vera risorsa, in quanto rappresentano un “esercito” diffuso capillarmente in tutte le aree coltivabili e vocato al presidio del territorio. Una domanda può darci anche la risposta: e se l’agricoltura non fosse il problema ma diventasse la soluzione?
di Riccardo Deserti
Presidente di Origin e direttore del Consorzio Parmigiano Reggiano