Nessun spiraglio. Almeno per ora. Sulla Brexit, al di là delle dichiarazioni di cortesia, le posizioni paiono lontane. Lo si è visto anche al III Forum Agrifood Monitor di Nomisma e Crif organizzato a Bologna.
A confronto il vice ambasciatore britannico Ken O’Flaherty e l’europarlamentare Paolo De Castro. A un O'Flaherty che ricorda come il «white paper» britannico per l'uscita (prevista per il 29 marzo 2019, ndr) preveda una continuazione dei rapporti e un'area di libero scambio», risponde un De Castro pessimista che sottolinea «dopo aver sentito il capo delegazione europeo Barnier, non mi pare proprio si siano fatti passi avanti. Anzi, se possibile, le posizioni si sono ingarbugliate».
Dunque a sei mesi dalla data ufficiale del
divorzio del Regno Unito dall’Unione europea si naviga a vista con un quadro di riferimento complesso, nel quale si inseriscono anche l'avanzata dei movimenti antieuropeisti, la mancanza del quadro finanziario del Vecchio Continente (e quindi la non definizione della Pac), le prossime elezioni per il parlamento di Bruxelles
e le difficoltà in terra d'Albione di Theresa May.
In questo contesto, molto volatile, Nomisma ha fatto il punto sul ruolo che il mercato inglese detiene per il nostro sistema agroalimentare e sui rischi collegati ai potenziali effetti della Brexit.
«Con un valore vicino - sottolinea Denis Pantini responsabile agroalimentare di Nomisma - ai 56 Miliardi di euro, il Regno Unito rappresenta il sesto mercato al mondo per import di prodotti agroalimentari e il secondo per consumi a livello europeo (250 miliardi di euro nel 2017). Si tratta di un paese dove l’autosufficienza alimentare non supera il 50% e per tale motivo fortemente dipendente dalle importazioni, in particolare degli (ancora) partner europei, dato che il 70% delle forniture di prodotti alimentari proviene proprio da questi paesi. In tale ambito, l’Italia figura come il sesto fornitore, con una quota a valore vicina al 6% dell’import britannico».
Vista dall’altra sponda, la Gran Bretagna si configura come il nostro quarto mercato di export alimentare più importante, dopo Germania, Francia e Stati Uniti. Un mercato che nell’ultimo decennio ha aumentato i propri acquisti di prodotti del “Made in Italy” del 43%, ben più di quanto fatto nei confronti dei nostri concorrenti francesi o olandesi, ma meno rispetto a quelli spagnoli o tedeschi (+55%). Nei mesi successivi alla dichiarazione di uscita dall’Ue sancita con il referendum e con un sterlina svalutata di oltre il 10% rispetto all’euro, i tassi di crescita delle nostre vendite sul mercato britannico si sono ridotti per poi riprendersi nei primi sette mesi del 2018, quando l’import di prodotti alimentari dal nostro paese ha registrato un quasi +3% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
Tuttavia, se dal dato dell’export agroalimentare complessivo si passa a considerare quello delle singole produzioni, la rilevanza del Regno Unito assume ben altri contorni.
Il caso Prosecco
«I casi di prodotti fortemente legati agli acquisti dal Regno Unito - continua Pantini - sono numerosi. Basti pensare al Prosecco, per il quale la Gran Bretagna assorbe circa il 40% di tutto l’export, oppure ai pelati e alle polpe di pomodoro per le quali l’incidenza di questo mercato arriva al 20%».
Tra i prodotti che vantano valori di esportazione più contenuti (sotto i 100 milioni di euro in questo mercato) vanno poi segnalati anche le zuppe pronte e i fagioli in scatoli per i quali UK assorbe circa un terzo del relativo export. Anche i formaggi grana Dop (Parmigiano Reggiano e Grana Padano) contano sul Regno Unito per il 9% delle proprie vendite oltre frontiera.
«E parlando di indicazioni geografiche - conclude Pantini - non bisogna sottovalutare il fatto che tra vini e prodotti alimentari Dop e Ipg finisce in Gran Bretagna circa un miliardo di euro del nostro export “di eccellenze”, vale a dire quasi un terzo dell’intero valore delle esportazioni italiane di food&beverage in questo mercato»
Le Regioni più esposte
Si tratta di numeri importanti che invitano a prestare attenzione all’evolversi nel negoziato in corso tra Ue e Uk, anche perché da come saranno definiti gli accordi di uscita – e da come questi impatteranno sulla tenuta del potere di acquisto degli inglesi e sul sistema delle tutela delle denominazioni di origine - non dipende solo il futuro di alcuni tra i principali prodotti del food&beverage italiano ma anche delle economie locali collegate: basti pensare che per tre regioni italiane (Campania, Veneto e Basilicata), il Regno Unito arriva a pesare fino al 15% sull’export agroalimentare regionale.