Dunque il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, mantiene fede agli annunci elettorali e promette di alzare tutta una serie di barriere tariffarie nei confronti delle merci provenienti dall’Europa, la Cina e dagli altri paesi del Sud-Est asiatico, con il fine di proteggere il Made in Usa. Per ora si tratta di acciaio e alluminio, ma poi potrebbe toccare ad auto, moda e all’agroalimentare stesso (una delle prime voci dell’import americano). Mosso dalla convinzione che la crisi della siderurgia americana e la parallela caduta dell’occupazione mettano in ginocchio un settore strategico per il paese, Trump offre la classica risposta ‘radicale’. Aldilà delle dimensioni politiche del caso (negli Sati Uniti ci si avvia verso le elezioni per il rinnovo delle Camere), della consueta scompostezza e rumorosità del Presidente Usa, è tuttavia indubbio che le scelte del leader statunitense hanno il merito di accendere un faro su natura, conseguenze e responsabilità di chi ha guidato finora il processo di globalizzazione sul nostro pianeta: parliamo certo degli Usa, del ruolo dei grandi conglomerati economici sovranazionali (le cosidette multinazionali), degli Stati e dell’Unione Europea.
Ci sembra di rilevare come all’idea di ‘libero commercio’, nel corso di questi anni, si sia sempre più dissociata l’idea di un commercio ‘equo’, che tenesse conto del rispetto di regole condivise sul piano ambientale, della tutela sociale dei lavoratori e della sicurezza dei cittadini. Vi sono effetti di questa dissociazione molto espliciti e li vediamo bene in Italia dove dal riso asiatico alle conserve di pomodoro cinesi, dall’ortofrutta sudamericana a quella africana in vendita nei supermercati italiani, quasi un prodotto agroalimentare su cinque che arriva in Italia dall’estero non rispetta le normative in materia di tutela dei lavoratori – a partire da quella sul caporalato – vigenti nel nostro Paese. Il commercio dunque è “libero” ma, ahimè, è ben lontano dall’essere “equo”, gravato fin dal momento della raccolta per arrivare a quello della trasformazione da processi di dumping sociale, economico e ambientale.
E qui arriviamo alle responsabilità delle nazioni, delle realtà sovranazionali e dell’Unione europea in particolare. Dobbiamo infatti essere consapevoli che tutto ciò accade grazie alla regia e alle norme sancite dagli accordi bilaterali o multilaterali di libero scambio. Stiamo pensando ad esempio al Ceta (l’accordo fra Ue e Canada) che favorisce l’importazione di grano duro da quel Paese in cui viene fatto un uso intensivo di glifosato nella fase di pre-raccolta, vietato in Italia; oppure pensiamo al negoziato in corso con i Paesi del Mercosur che prevede l’arrivo di grandi quantitativi di carne bovina dai Paesi sudamericani, che non rispettano gli standard produttivi e di tracciabilità oggi vigenti in Italia e nel Vecchio Continente; senza considerare le condizioni favorevoli che sono state concesse dall’Ue al Marocco per pomodoro da mensa, arance, clementine, fragole, cetrioli, zucchine, aglio, olio d’oliva, all’Egitto per fragole, uva da tavola, finocchi e carciofi, oltre all’olio d’oliva tunisino, dove non valgono certamente gli stessi standard produttivi, sociali e ambientali vigenti in Italia. Serve quindi ripensare dalle radici non solo le regole, ma in primo luogo i principi fondativi del libero commercio. É necessario infatti che tutti i prodotti che entrano nei confini nazionali ed europei rispettino gli stessi criteri, garantendo che dietro tutti gli alimenti, italiani e stranieri, in vendita sugli scaffali ci sia un analogo percorso di qualità che riguarda ambiente, salute e lavoro, con giusta distribuzione del valore per chi produce e per chi consuma.
Serve dunque il blocco immediato delle importazioni da Paesi che non rispettano regole analoghe. É il caso ad esempio del riso asiatico per il quale dopo quattro anni non è ancora stata attivata la clausola di salvaguardia per le importazioni nell’Unione europea a dazio zero da Paesi asiatici (Eba) come la Birmania, dove è addirittura in atto una violenta repressione della minoranza dei Rohingya denunciata dalle Nazioni Unite.
di Roberto Moncalvo
presidente nazionale Coldiretti