Da qualche mese, il commissario europeo all’Agricoltura e allo sviluppo rurale Phil Hogan ha aperto ufficialmente un dibattito pubblico sul greening. Ciolos voleva una “Pac più verde e più equa”. Hogan rimette in discussione questa scelta?
In altre parole, la domanda è: il greening è stato un errore? Tutto da rifare?
Partiamo da alcune certezze. Questa Pac – seppure complicata e problematica – fino al 2018 non cambierà, pertanto deve essere attuata al meglio. Ma alcuni cambiamenti saranno necessari e inevitabili. Ricordiamo che il greening prevede tre impegni: la diversificazione delle colture; il mantenimento dei prati permanenti; la presenza del 5% di aree di interesse ecologico.
Il greening ha interessato una bassa percentuale di aziende agricole italiane (3,8% di aziende e 27% della superficie a seminativo), in quanto molte di esse sono piccole (inferiori a 10 ha di seminativo), quindi esentate, o sono dedite a colture permanenti (vigneti, oliveti, frutteti, ecc.), quindi greening per definizione.
Quali sono stati gli effetti del greening nel 2015, primo anno di applicazione? Gli effetti non sono stravolgenti, ma ci sono stati. Nel primo anno di applicazione in Italia, la diversificazione ha generato una diminuzione della superficie a mais e a grano duro, a favore di leguminose e terreni a riposo. Gli effetti più vistosi hanno riguardato il mais, con una diminuzione di oltre 80.000 ettari, aggravata dalla crisi di mercato e dal problema delle micotossine.
Una parte degli agricoltori ha criticato aspramente il greening, altri vedono positivamente una maggiore attenzione dell’agricoltura all’ambiente; ma tutti sono concordi riguardo alla scarsa utilità degli attuali impegni (soprattutto la diversificazione) e all’eccessiva complessità della sua applicazione.
Le norme del greening sono complesse già nella normativa comunitaria. Ma la scarsa efficienza della pubblica amministrazione italiana (Ministero e Agea) ha acuito la complessità e l’incertezza in molte situazioni: la questione dell’uso dei concimi/diserbanti nelle azotofissatrici, l’individuazione della “coltura diversificante” nella policoltura, la vicenda dell’erba medica in “purezza”, l’individuazione degli elementi caratteristici del paesaggio.
Ad esempio, la maggior parte dell’agricoltura italiana rispetta il 5% delle aree ecologiche, perché è ricca di elementi caratteristici del paesaggio (siepi, fossati, fasce tampone, alberi, muretti, bordi di campi ecc.), ma la preoccupazione degli agricoltori è la capacità di Agea di verificarli; per ragioni burocratiche, solo lo 0,5% degli agricoltori ha dichiarato gli elementi caratteristici del paesaggio, quando invece tutte le aziende potevano dichiararli.
Alla luce di questi problemi, è ragionevole un ripensamento del greening dal 2018? Si può ipotizzare una sua eliminazione? Io credo di no, perché la collettività e gli stessi agricoltori riconoscono all’agricoltura un ruolo fondamentale nel mantenimento della superficie agricola in buone condizioni agronomiche, a vantaggio del paesaggio e dell’equilibrio idrogeologico, a tutela del suolo e della biodiversità. Al di là delle critiche al modo in cui è stato applicato il greening, questa è la base politica che giustifica il sostegno della Pac.
D’altro canto, le norme del greening hanno dimostrato un parziale fallimento, ma non sono un corpus rigido, scolpito nella pietra: dopo un anno di sperimentazione, esse possono essere modificate e plasmate per una maggiore efficacia e per affrontare nuove emergenze ambientali (ad es. i cambiamenti climatici, la prevenzione degli incendi, il dissesto idrogeologico, ecc.) e per rispondere alle nuove aspettative dei cittadini europei.
Il greening cambierà, ma la componente ecologica greening della Pac non è in discussione.
di Angelo Frascarelli
Università di Perugia
angelo.frascarelli@unipg.it