L’Europa è vulnerabile sul fronte agroalimentare

Mauro Balboni
Tutelare il ruolo dell’agricoltura in un pianeta sempre più pieno di frigoriferi. Il conflitto russo-ucraino mette a nudo i nervi scoperti del nostro settore primario. Intervista a Mauro Balboni, autore che conosce da vicino i paradossi del rapporto tra agricoltura e sostenibilità

Trattrici a guida assistita ghermite come ambite prede di guerra.

Navi cariche di grano e girasole dirottate.

Migliaia di ettari di campi fertili ridotti a un colabrodo dai colpi insistiti dell’artiglieria pesante.

Sul fronte del conflitto russo-ucraino l’agricoltura è decisamente nel mirino. Una situazione che secondo recenti analisi internazionali rischia di innescare una pesante crisi alimentare. Un effetto che, più che collaterale, sembra voluto e ricercato. L’Unione europea minimizza e ritiene che riguardi solo i Paesi emergenti della sponda sud del Mediterraneo, eppure il “nemico” scommette sulla vulnerabilità alimentare occidentale, possibile? Rischiamo di non poter più riempire i nostri frigoriferi? La domanda non è pellegrina perché le abitudini alimentari del mondo stanno cambiando. Oggi ci sono 1,5 miliardi di frigoriferi e ci abbiamo messo 100 anni per arrivare a questo numero.

Da qui al 2030 ci saranno altri 3 miliardi di esseri umani che ci faranno concorrenza su risorse limitate come le proteine animali perché potranno permettersi, per la prima volta nella storia, di averne uno. Lo scrive Mauro Balboni, autore che conosce da vicino i paradossi del rapporto tra agricoltura e sostenibilità. Il suo best seller “Il pianeta mangiato” è stato un caso letterario cinque anni fa e ora esce la sua nuova fatica, “Il pianeta dei frigoriferi”, per l’appunto.

Intervista pubblicata su Terra e Vita 20/2022

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Ci stiamo avviando verso una crisi alimentare globale?

Siamo da anni – riflette Balboni – in una fase di prezzi agricoli crescenti. Il Food Price Index della Fao è decisamente in salita dal 2004, con una prima serie di picchi tra il 2008 e il 2014. Dal 2020 l’effetto pandemia, tra costi crescenti e difficoltà logistiche globali, ha accelerato questo trend. L’anno scorso, 2021, ci si è messa pure la siccità nelle zone cerealicole Nord Americane. Ora la guerra tra due dei maggiori produttori agricoli mondiali. C’è chi predice una situazione di insicurezza alimentare per altri 500 milioni di persone oltre ai 700 che vi si trovano già cronicamente. E in effetti la previsione Fao per il 2022 è che la superficie raccolta in Ucraina possa registrare un crollo del 20%. La situazione dei prezzi agricoli rischia di rimanere tesa.

Fino a quando?

La crisi ucraina sarà prima o poi risolta ma i fondamentali del futuro sono chiari e forse ancor più preoccupanti: enorme aumento della domanda di cibo dovuta alla crescita demografica, aumento generalizzato del reddito in Asia e Africa e transizione alimentare (non solo più cibo, ma più proteine animali e cibo trasformato). Per chiudere: le incertezze relative a dove, con quale intensità e frequenza colpirà il cambiamento climatico. Per il quale la domanda non è più “se” ma “quanto spesso”. Ci stiamo preparando al cambiamento?

Qualcosa cambia: Bruxelles con Green Deal e Farm to Fork scommette sulla possibilità di nutrire l’umanità preservando contemporaneamente l’integrità degli ecosistemi. Un doppio obiettivo possibile?

Gira e rigira, il problema della sostenibilità della crescita rimane irrinunciabile. La risposta alla domanda è: sì, è possibile. Dobbiamo però aumentare la produzione di cibo sulla parte di pianeta già coltivata. Nell’emisfero Nord (consapevolmente o meno) ci stiamo riuscendo: vari studi evidenziano che l’appropriazione da parte dell’uomo della capacità fotosintetica primaria è proporzionalmente calata all’aumentare delle rese agricole dagli anni 50 in poi. Ma ai tropici continua il processo innescato dai primi agricoltori più di 10mila anni fa: si deforestano estese aree per perseguire gli obiettivi dell’agribusiness globale (e anche per quelli della piccola agricoltura compresa quella di sussistenza).

Con il dilemma del Sud America, dove negli ultimi decenni è aumentata la produzione per ettaro, ma contemporaneamente anche l’appropriazione di ecosistemi naturali (per far spazio alla soia ogm nel Mato Grosso, ad esempio). Aggiungiamo l’altro grande nodo relativo all’enorme estensione di terra occupata dalla produzione di proteine animali: c’è chi pensa che si possa cambiare facilmente paradigma alimentare, ma i segnali che vengono dai mercati sono altri. Quanta di questa terra potremmo veramente recuperare con l’utopia di un’alimentazione completamente vegetale?

Cosa impedisce il raggiungimento di questi obiettivi?

A parte i pregiudizi culturali, come il mito di un ritorno ad un’agricoltura preindustriale molto romanticizzata, l’ostacolo degli ostacoli rimane proprio quello delle politiche agricole. L’Ocse calcola infatti che oggi siamo arrivati a oltre 300 miliardi di dollari l’anno solo di sussidi agricoli diretti, con uno spettacolare aumento nelle economie emergenti (tra cui enormi produttori agroalimentari quali Cina, India, Russia, Brasile e altri), dove i sostegni pubblici al comparto primario sono decuplicati dal 2000 a oggi.

Di questi meno del 10% va all’innovazione. Una quota che invece dovrebbe iniziare presto a crescere, a partire dalla Ue, se necessario disaccoppiandola dal concetto di sussidi agricoli. Occorre però mettersi prima d’accordo su cosa costituisca vera “innovazione agroalimentare”. Anche perchè manca clamorosamente una governance globale del cibo: i Paesi del mondo parlano tra loro di clima o di buco dell’ozono, ma per la sicurezza alimentare globale o per l’impronta globale dell’agricoltura non esistono accordi tipo Montreal, Kyoto o Parigi 2015.

Dipende forse dal fatto che per molti “teorici” della sostenibilità le soluzioni esisterebbero già: quella della decrescita felice e del “frugalesimo” alimentare delle generazioni passate ad esempio.

L’esaltazione, nel mondo occidentale, del concetto di rinuncia e di cibo “senza qualcosa” contiene un senso di colpa individuale da espiare attraverso una catarsi sociale e ambientale. Il “buon cibo di una volta” è un rifugio mentale giustificato solo dal fatto di non averlo mai mangiato. I segnali che vengono dai mercati agricoli sono altri.

Sul fronte innovazione da qualche tempo si intravede qualcosa che ha il potenziale per cambiare radicalmente le regole del gioco: la prospettiva di aumentare la produzione agricola non tramite l’aumento dell’uso di pesticidi o fertilizzanti, ma usandoli in maniera più intelligente

La conversione di massa al biologico?

Compro spesso e volentieri nelle fattorie bio e “a km zero” vicino casa. Producono ciliegie, cavoli, mele (piuttosto acidule), alcuni ortaggi, fragole, piccoli frutti: altro alle mie latitudini non cresce. Non potrei certo basare la mia intera alimentazione su questi prodotti, eppure, per l’immaginario collettivo europeo, è questa la soluzione per il futuro del cibo. In generale, io non credo che esista un’unica soluzione e diffido di quelle, come il bio, che perseguono una supremazia imposta dalla politica. In Svizzera l’anno scorso si è provato addirittura ad arrivarci attraverso un referendum, peraltro bocciato nettamente dai cittadini. Riconosco le interessanti opzioni offerte dal biologico ma, come riporto nel nuovo libro, è addirittura il Fibl, uno dei più prestigiosi istituti di ricerca di questo settore ad ammonire sulle facili generalizzazioni riguardo alla possibilità di nutrire il mondo in modo più sostenibile solo con l’agricoltura biologica.

Allora, sul lato opposto, gli ogm

Non sono certo tra chi ha paura del miglioramento genetico delle colture. Segnalo tuttavia che l’espansione globale delle varietà ogm sembra oggi rallentare. Lanciate sul mercato nel 1996, hanno conosciuto per anni un successo spettacolare, fino a toccare nel 2018 i 191 milioni di ettari (quasi 15 volte l’intera superficie mondiale a colture arative bio). Ma dal 2010 la crescita è dimezzata (5 milioni di ettari all’anno) e dal 2014-15 è addirittura calata, concentrata a un numero limitato di Paesi e a sole 3 colture: mais, soia e cotone. Temo che incentrare l’attenzione su questa sigla, “antipatica” a una larga fetta di cittadini occidentali, rischi di produrre l’effetto collaterale di vanificare una delle più concrete chance che abbiamo a disposizione, ovvero quella delle Nbt o Tecnologie di evoluzione assistita (Tea). L’Europa è chiamata ad esprimersi entro l’anno sul loro inquadramento normativo. Attendo con curiosità e attenzione gli sviluppi e troverei assurdo che la Ue vietasse queste nuove biotecnologie, fatta salva la valutazione del rischio, o peggio ancora che i singoli Stati membri imponessero moratorie emotive, opportunistiche e non scientifiche.

Qual è quindi la ricetta per salvaguardare la nostra sicurezza alimentare?

Penso che convenga puntare ad una coesistenza di approcci anche molto diversi tra loro. Oggi possiamo mettere in campo, letteralmente, una batteria di tecnologie che non abbiamo mai avuto nelle nostre millenarie battaglie del grano: digitali, biologiche, biomimetiche, chimiche, meccatroniche, genetiche. Perché porre delle barriere al loro utilizzo, una volta espletata la valutazione del rischio?

Vedo opzioni interessanti arrivare dalla rivoluzione digitale: il silicio incontra la fotosintesi, ho scritto nel libro. Ritengo che dovremmo investire anche nella ricerca nei sistemi policolturali ma farlo veramente, con soluzioni in grado di sfamare i 10 miliardi di sapiens del 2050, non fermandoci a magnificare l’orto indigeno ruralista superstite, che va benissimo rimanga ma non garantisce di sfamare, ad esempio, gli 80 milioni di abitanti di Lagos (in Nigeria) di fine secolo. Ho visto (e lo descrivo nel Pianeta dei frigoriferi) insalate cresciute in serre sotterranee e proteine di insetti nutriti con scarti alimentari. Tutto interessantissimo: ma non abbiamo abbastanza serre in cui mettere 700 milioni di ettari di cereali, e (non ancora?) abbastanza farina di insetti (invece che mangimi di soia) per nutrire i 400 milioni di suini cinesi che vanno al macello ogni anno. E allora tutte le opzioni vanno messe sul tavolo, senza pregiudizi ideologici. È la brutale realtà a chiamarci a sintesi e scelte condivise. Prendi i cereali: ne produciamo anno dopo anno poco più di quelli che consumiamo, metà degli stock mondiali è però oggi in mani cinesi e entro il 2050 ne dovremo produrre un altro miliardo di tonnellate più di oggi, ogni anno.

Intervista pubblicata su Terra e Vita 20/2022

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L’identikit

Mauro Balboni

Mauro Balboni (Bolzano, 1958) si è laureato in Scienze Agrarie all’Università di Bologna, dove – anche con la sua tesi sperimentale sui regolatori di crescita degli insetti fitofagi – cominciò a interessarsi alle opportunità dell’agricoltura integrata fin dai suoi albori. Ha poi lavorato oltre 30 anni nella ricerca e sviluppo e nell’ambito degli affari regolamentativi (regulatory affairs) della grande industria agrochimica, la maggior parte dei quali come dirigente con responsabilità europee e globali. Ha vissuto a Milano, Bologna, Vienna, Oxford, Zurigo. Oggi vive tra la Svizzera e il lago di Garda.

È l’autore de “Il Pianeta Mangiato” (Dissensi, 2017), sul rapporto difficile tra agricoltura e sostenibilità e ora Il Pianeta dei frigoriferi (Scienza Express, 2022), un viaggio nel cibo di domani che punta a “convalidare l’aneddotica con i dati”.


Non c’è (più) terra per tutti

C’è terra per tutti? È lo slogan lanciato da Edagricole cinque anni fa, alla celebrazione del suo 80° compleanno per superare i contrasti tra modelli di produzione diversi alla luce della constatazione che in realtà in Italia la superficie agricola cala non solo per effetto dell’urban sprawl ma anche dell’abbandono delle aree interne.

«È il quesito fondamentale de “Il Pianeta dei frigoriferi” – dice Balboni – e la mia risposta è chiaramente: no». «Tra abbandono rurale irreversibile, crescita dell’ambiente infrastrutturale umano, trattati climatici e di biodiversità che prima o poi cominceremo ad implementare (firmarli non basta) e che quindi ci impediranno di convertire altra terra all’agricoltura, degradazione del suolo e altri problemi ecologici acuiti dal cambiamento climatico (e qui l’Europa mediterranea è tra le aree più a rischio) non vedo un domani con più terra fertile di oggi. Come sfamare il mondo con meno terra a disposizione è LA domanda di questo secolo. E sospetto che la risposta, o meglio le risposte, saranno probabilmente diverse da quanto oggi possiamo immaginare»


«La nostra impronta ecologica non dipende solo dal cibo, ovviamente, ma il ruolo della produzione del cibo ha dimensioni che non possono essere ignorate: occupa metà della superficie bioproduttiva terrestre; causa l’80% della deforestazione; utilizza il 70% dell’acqua dolce usata dall’intera umanità; genera almeno un quarto delle emissioni climalteranti; contribuisce all’eutrofizzazione degli ecosistemi acquatici; e via dicendo».

da “Il pianeta dei frigoriferi”

L’Europa è vulnerabile sul fronte agroalimentare - Ultima modifica: 2022-06-27T15:55:00+02:00 da Lorenzo Tosi

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