A poco o nulla servono il Fondo per la sovranità alimentare, i contratti di filiera, il pagamento accoppiato, l’agricoltura di precisione, tecniche agronomiche sempre più evolute, oltre al miglioramento varietale e alle deroghe al divieto di monosuccessione concesse in Puglia e Sicilia. Nonostante gli incentivi economici, le innovazioni tecnologiche e di breeding e un allentamento delle nuove regole Pac, il frumento, soprattutto duro, non scalda più il cuore degli agricoltori italiani. Quella con il cereale per antonomasia, simbolo dell’agricoltura mediterranea almeno quanto l’olivo, sta diventando una relazione stanca, come accade, a volte, tra vecchi coniugi che dopo tanti anni mal si sopportano.
Articolo pubblicato sulla rubrica Primo Piano di Terra e Vita
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I pessimi risultati della campagna 2023, dovuti in gran parte alle avversità climatiche (-7,7% il calo delle rese rispetto alla media degli ultimi cinque anni), abbinati a una Pac decurtata e, a parere dei produttori, complicata da troppe regole sovrapposte, rappresentano una delusione cocente, che ha portato i cerealicoltori a chiedersi se vale ancora la pena seminare grano, soprattutto duro. Ma anche se restare dentro la Pac o rinunciare a contributi sempre più scarsi per essere liberi di impostare le scelte colturali. E di certo non sono un incentivo alla coltivazione del frumento il tavolo grano duro promesso dal Masaf ma per ora rimasto sulla carta, così come la Commissione sperimentale nazionale per la determinazione del prezzo, di fatto mai partita e lo slittamento (per ora) al primo gennaio 2025 dell’entrata in funzione di “Granaio Italia”, cioè il registro telematico per la tracciabilità del frumento importato. Tutti strumenti che nelle intenzioni dovrebbero tutelare le quotazioni del grano a vantaggio degli agricoltori.
E a proposito di import, nei primi nove mesi del 2023 quelle di frumento duro sono aumentate di un terzo: +382% dal Canada (per un totale di 730.000 t). Importanti aumenti anche da Russia (+300.000 t) e Turchia (+539.000 t), che hanno depresso le quotazioni del grano italiano.
Quasi scontato, quindi, che il sentimento dominante, in base ai pareri di imprenditori agricoli e tecnici che operano nelle zone cerealicole più importanti d’Italia sia lo scetticismo. Per il 2024 si prevede quindi un calo delle superfici seminate a frumento duro quantificabile tra il 5 e il 15%, ma più in generale aspettative poco favorevoli per la nuova stagione.
Nord e Centro, quanti dolori
Ciò che tutti gli interpellati del Nord Italia lamentano è il calo dei prezzi o per meglio dire lo squilibrio tra i prezzi del grano, in brusca riduzione, e quelli dei mezzi tecnici, stabili se non in aumento. «Ho seminato tutto il grano previsto dal programma colturale: 120 ettari su 400 di Sau. Metà duro, metà tenero. Proviamo ad andare avanti, ma siamo sfiduciati. Con il duro a 30 euro il quintale e il tenero a 25 non si coprono i costi, soprattutto per noi che facciamo biologico. E le altre colture, dal girasole alla soia, non vanno meglio». Chi parla è Simone Pepi, cerealicoltore della provincia di Siena. «Ragioniamo sulle filiere: sia come produttori, sia come stoccatori. Ma con due euro in più al quintale c’è poco da mordere: se ne vanno tutti con le maggiori spese imposte dai disciplinari», gli fa eco Ezio Maurino, dal Torinese.
Al secondo posto, nel quadro di lamentele, ci sono le rese, con cali produttivi dal 20 al 40% e caratteristiche qualitative penalizzanti. Questo a Torino quanto in provincia di Pavia, dove lavora Marco Covini: «Coltiviamo soltanto frumento di forza, fuori filiera: 200 ettari su 600 totali. Li faremo anche nel 2024. Non andiamo male, ma i frumenti biscottieri hanno sofferto. E l’orzo, nelle semine in zona, è quasi scomparso». Non va meglio in Toscana, dove Pepi lamenta scarse rese causate da tre mesi di pioggia a primavera.
A completamento del quadro ci sono le incognite della nuova Pac. Non tanto per le rotazioni, ormai consuetudine per tutti gli interpellati, quanto per il taglio drastico ai contributi. «Noi per le rotazioni non abbiamo problemi – dice Emanuele Bianchini, del Maceratese – ma i piccoli agricoltori, con 40-50 ettari, facevano ristoppi e ora dovranno abbandonare il grano per un anno. Fortunatamente, abbiamo la bietola a darci una mano». Anche più complicato il quadro nel Torinese. «In certe zone non possiamo fare mais – spiega Maurino – perché i cinghiali lo devastano. La Pac però impone le rotazioni: a questo punto, credo che più d’uno rinuncerà ai contributi, pur di seminare quel che vuole».
Puglia e Basilicata svogliate
In Puglia e Basilicata le superfici a grano duro quest’anno saranno sicuramente in calo. Gli agricoltori da fine novembre hanno iniziato a seminare, ma a malincuore. E molti si stanno orientando verso colture alternative, per usufruire degli aiuti comunitari e mettere in tasca qualcosa di più di quanto potrà garantire il frumento.
«In Puglia la Regione ha concesso una deroga all’obbligo di rotazione biennale per il grano duro previsto dalla nuova Pac 2023-2027 – dichiara Marcello Martino, agronomo responsabile della conduzione di numerose aziende cerealicole rappresentative del Foggiano e produttore egli stesso di grano duro in agro di Manfredonia e Foggia –. Deroga giustificata dalle condizioni di aridocoltura in cui vengono condotti i seminativi e quindi anche la coltivazione del grano duro. Ma gli agricoltori negli ultimi mesi si sono chiesti, a fronte dei modesti prezzi al produttore e degli alti costi di produzione, nonché di un aiuto comunitario ridotto alla metà, se vale ancora la pena continuare a investire nella coltivazione del grano duro e di tornare, quindi, a seminarlo. Gli effetti si sono già visti nella svogliatezza con la quale gli agricoltori foggiani hanno affrontato le prime semine verso la fine del mese di novembre. Se è vero, infatti, che soltanto nell’ultima settimana di novembre sono arrivate un po’ di piogge per effettuare le lavorazioni di affinamento del terreno utili per un migliore letto di semina del grano, è altrettanto vero che l’inizio delle semine è andato a rilento per mancanza di buona volontà da parte degli agricoltori, che si sentono molto sfiduciati».
La mancanza di fiducia, ad avviso di Martino, è presto spiegata. «Facendo un bilancio preventivo prima di organizzare la semina del grano duro, è normale che gli agricoltori tentennino di fronte al forte divario tra i prezzi al produttore e i costi di produzione. I primi sono fermi da settimane a 37-38 € al quintale per il grano duro fino, quello di qualità migliore. I secondi hanno confermato anche nell’ultimo anno una forte tendenza al rialzo e fanno sentire il loro peso. Un esempio lampante degli altissimi costi di produzione e nello stesso tempo della sperequazione tra prezzi al produttore e costi di produzione è quello del grano duro da seme, che nei mesi successivi alla raccolta è stato pagato dalle aziende sementiere in media circa 40 €/q.
Ma poi queste stesse aziende, già a partire dallo scorso ottobre, hanno imposto un prezzo medio delle sementi di grano duro di circa 75 €/q. Quasi il doppio. E hanno motivato tale prezzo dicendo che il grano duro da seme prodotto nel 2023 non sarebbe stato di eccellente qualità, soprattutto a causa di un peso specifico più basso del solito, tanto da obbligarle a sostenere costi più alti per selezionare il migliore. In realtà, nonostante la cattiva annata sotto l’aspetto climatico (per le troppe piogge di maggio e giugno), il grano duro da seme raccolto nell’estate scorsa presentava comunque buone caratteristiche generali, sia perché è stato coltivato nei terreni migliori sia perché è stato protetto con ripetuti trattamenti anticrittogamici. Fino a qualche anno fa la differenza tra i prezzi del grano duro da seme raccolto in estate e quelli delle sementi per la successiva annata agraria era di 10-15-20 €/q, mentre quest’anno è arrivata addirittura a 35 €».
È sulla base del forte divario tra prezzi ai produttori e costi di produzione che Martino ipotizza una probabile riduzione delle superfici seminate a grano duro. «Alcuni agricoltori si sono orientati verso altre coltivazioni, come ad esempio le leguminose e, in particolare, il favino da granella, il cui prezzo di mercato, però, potrebbe crollare l’anno prossimo, oppure verso le cosiddette piante mellifere, da tenere in campo per lungo tempo, in cambio di un contributo Ue di circa 500 €/ha, oppure verso le coltivazioni orticole autunno-invernali, ma soltanto laddove vi sono risorse idriche per l’irrigazione. Un ulteriore esempio di come le prospettive per gli agricoltori siano sempre molto incerte e non consentano una facile programmazione del lavoro. Tra l’altro a oggi non si avverte alcuna eventuale conseguenza positiva della Commissione sperimentale nazionale, né del tavolo di comparto promesso a luglio dal ministro dell’Agricoltura, di cui, in entrambi i casi, non si hanno notizie».
Sicilia, i grandi si sfilano
La lunga, anzi lunghissima, estate siccitosa in Sicilia ha ritardato le semine di una quindicina di giorni. E ha fatto saltare il classico calendario delle lavorazioni. Preparare un buon letto di semina, quest’anno, è stato complicato e non dappertutto ci si è riusciti. Spesso non è stato possibile fare la falsa semina: in assenza di precipitazioni le infestanti non sono spuntate. «Ma lo faranno subito dopo la semina e questo renderà necessaria un’operazione di diserbo che in genere non si fa», osserva il sementiere e cerealicoltore Salvatore Lo Porto di Alimena (Pa). E poi c’è il problema di chi, avendo optato per l’ecoschema 4, ha dovuto aspettare fino alla scadenza dell’impegno per cominciare le lavorazioni del terreno.
Le superfici destinate a orzo e avena sono in calo e anche il frumento duro, coltura tipica dell’entroterra collinare siciliano, segna il passo. La deroga al divieto di ringrano concessa appena in tempo dalla Regione Siciliana è stata accolta con piacere dai cerealicoltori in convenzionale, ma ha spostato poco o nulla per quelli in biologico che, ovviamente, le buone pratiche devono sempre rispettarle.
Il dato non è confermato, ma pare che in Sicilia quest’anno le semine dei cereali subiranno un calo del 10-15%. Chi ha preferito non seminare pare siano alcune grandi aziende che non potendo superare medie di 30 q/ha temono che le tensioni internazionali possano deprimere il prezzo del grano duro. Per queste, a conti fatti, qualora il frumento duro non dovesse raggiungere quotazioni di 40-45 € al quintale, non c’è convenienza a coltivarlo.
Chi ha 20-30 ettari alla fine si convince e semina ugualmente anche quando, conti alla mano, risparmierebbe nel non farlo. Per ridurre i costi risparmia sulle concimazioni. «Ma questo com’è noto si riverbera sulle produzioni sia in termini di volumi che di qualità, come succede per il contenuto proteico», sottolinea Lo Porto. C’è chi, per riuscire a fare reddito, ha optato per l’ecoschema 5 (misure per gli impollinatori): costi ridotti a fronte di 600 €/ha di contributo nel 2023 e i previsti 400 nel 2024. Cifre che hanno risolto qualche problema di bilancio aziendale.
Nell’Ennese e in particolare nella valle del Dittaino, dove una consistente fetta di cerealicoltori è socia dell’omonima coop, comincia a farsi strada prepotentemente il tenero: il 60% dei 2.500 ettari dei soci è coltivato a frumento tenero che serve per i prodotti da forno con cui la coop Valle del Dittaino ha sfondato nella Gdo. E la richiesta sempre crescente ha spinto il management della coop a stringere alleanze con altre realtà produttive in Sicilia.
La situazione internazionale
Nelle ultime settimane del 2023 sono riprese le esportazioni verso l’Asia, Cina in particolare, quindi sulle borse americane le quotazioni del grano sono salite. Dal campo si parla di raccolti statunitensi e canadesi che confermano rese/ha inferiori alle attese, ma una qualità eccellente: buon peso specifico, alta percentuale di chicchi vitrei, basso livello di difetti ed elevato tenore proteico.
Le borse italiane vivono di riflesso rispetto a quanto accade nel resto del mondo (fig. 1), quindi se il flusso europeo in uscita si ripristinasse, sulle nostre mercuriali potremmo vedere per i grani superiori e di forza effetti di ripresa da onda lunga con un rimbalzo delle quotazioni. Meno coinvolti i grani “panificabili” che da mesi risentono di un fenomeno depressivo a causa dell’ampia offerta dall’Est Europa, Ucraina in particolare.
Articolo pubblicato sulla rubrica Primo Piano di Terra e Vita
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