In Italia esistono le condizioni di un futuro certo per la coltura del grano duro? Un futuro nel quale i durogranicoltori abbiano certezza di reddito e convenienza a continuare a coltivare? Un futuro diverso dal presente, fatto di aleatorietà dei prezzi, tendenzialmente, però, molto bassi, e di redditi non raramente negativi, incapaci di compensare i costi di produzione?
Per Beppe De Mastro, docente di Coltivazioni erbacee al Dipartimento di scienze agro-ambientali e territoriali (Disaat) dell’Università di Bari, la risposta è positiva, purché il comparto si impegni a realizzare una profonda revisione interna, sia nella gestione agronomica sia in quella organizzativa. «È evidente che l’Italia non può trascurare un comparto per il quale vanta tante aree vocate e una lunga tradizione sia nella produzione di grano duro sia nella sua trasformazione in pasta e pane di alta qualità. Ma è altrettanto manifesto che il mercato del grano duro ormai da qualche tempo comprime i prezzi alla produzione verso il basso. Una tendenza solo in apparenza disattesa dal leggero aumento registrato dal grano duro fino, attualmente quotato 23,50-24,00 €/q, un prezzo sicuramente più alto dei 18,00-18,50 €/q di un anno fa, ma tuttavia incapace, tenendo conto delle basse rese medie registrate quest’anno (25- 30 q/ha), di assicurare redditi dignitosi». Per dare respiro al comparto occorre innanzitutto un approccio agronomico nuovo, basato sull’agricoltura di precisione per ridurre e ottimizzare i costi di produzione e sulla ricerca di varietà più produttive e tecnologicamente adatte a soddisfare le esigenze dell’industria molitoria e pastaia nazionale. E poi una strategia organizzativa fondata sull’offerta di grosse quantità di grano duro di qualità elevata e sull’adozione, da parte delle organizzazioni dei produttori, di contratti di filiera con disciplinari di produzione. «Fino a 10 anni fa l’Italia produceva 4,5 milioni di t/anno, ma oggi, dopo il drastico calo delle superfici coltivate, soddisfa solo il 60% del fabbisogno. L’andamento incerto della produzione, variabile da un anno all’altro, e la scarsa remunerazione degli agricoltori sfavoriscono l’approvvigionamento di prodotto nazionale. Inoltre è forte l’esigenza dell’industria molitoria e pastaia di disporre di grano duro di qualità, che, sia per le condizioni ambientali (clima, suolo e tecnica agronomica) sia per gli aspetti logistici (stoccaggio non differenziato di partite omogenee di grano), spesso è carente nelle produzioni nazionali. Perciò attualmente l’industria copre i fabbisogni nel medio periodo rivolgendosi al mercato estero e privilegiando i Paesi in grado di offrire partite di qualità omogenea e soprattutto in lotti di consegna significativi, a cui spesso riconosce una qualità superiore».
La filiera del grano duro, dichiara De Mastro, necessita di un intervento pubblico per la definizione di un piano di rilancio che punti all’incremento della produzione nazionale, attraverso l’aumento delle superfici coltivate, e al miglioramento della qualità. Nient’altro oltre i 100 € «In Italia, a parte il contribuito di 100 €/ha per la partecipazione a un contratto di filiera triennale, null’altro è previsto per il rilancio del grano duro nazionale. Né i Psr, pressoché ovunque in ritardo, stanno dando stimoli di sviluppo. Invece la Francia, con una superficie coltivata a grano duro pari a 1/5 di quella italiana, ci è di esempio, come ho evidenziato in una recente audizione alle Commissioni Agricoltura parlamentari, nell’ambito della discussione congiunta sulle iniziative per la tutela del comparto. FranceAgriMer (l’Agea francese) ha approvato nel 2015 un piano di rilancio ponendosi vari obiettivi, fra i quali “raddoppiare la produzione di grano duro” nel 2025, per garantire il regolare approvvigionamento delle industrie francesi e soddisfare la crescente domanda dei paesi del Maghreb e dell’Africa occidentale». Questo obiettivo, che sarebbe validissimo anche per l’Italia, è perseguibile solo se l’ampliamento delle superfici è esteso ad aree vocate, tali da contribuire al miglioramento quantitativo e qualitativo della granella. A tal fine la ricerca può favorire il trasferimento di conoscenze per la pianificazione territoriale della coltivazione del grano duro. «Recenti studi condotti in Puglia dal Disaat hanno evidenziato la presenza di aree ritenute molto e moderatamente adatte alla coltivazione del grano duro per una superficie di circa 400mila ha, superiore al 60% della Sau regionale. La possibilità di pianificare territorialmente la coltivazione sulla base della vocazionalità agronomica garantisce l’individuazione di areali con condizioni pedoclimatiche più favorevoli al conseguimento di un miglioramento produttivo in termini sia quantitativi sia qualitativi, oltre che un aumento della sola superficie pugliese del 14%». L’adozione di tali strumenti di supporto alle decisioni su scala nazionale, suggerisce De Mastro, favorirebbe l’aggregazione di organizzazioni di produttori sulla base di un riconoscimento di vocazionalità territoriale che, opportunamente gestita con contratti di filiera, assicurerebbe una maggiore stabilità di approvvigionamento di partite omogenee e di buona qualità favorendo anche lo stoccaggio differenziato di grano duro. Ma la disponibilità di informazioni sulla vocazionalità dei territori nazionale per la coltivazione del grano duro da sola non sarebbe in grado di risolvere le criticità della filiera. Bene invece le varietà francesi «Per esprimere al meglio le potenzialità produttive di un ambiente si devono prevedere scelte di tecnica colturale idonee, a partire dalla scelta varietale. In questo di grande aiuto sono i risultati divulgati dalla Rete nazionale di valutazione delle varietà, coordinata dal Crea con il coinvolgimento di altre istituzioni di ricerca. Ma la Rete nazionale frumento rappresenta la palese testimonianza dello stato in cui versa l’attività di ricerca pubblica. Infatti tale attività è ormai da oltre un quinquennio demandata a un’azione di volontariato da parte di alcune istituzioni di ricerca che senza alcun finanziamento continuano a condurre queste attività, peraltro costose». In queste condizioni di scarsa attenzione agli investimenti nella ricerca, non devono stupire i risultati conseguiti invece da varietà francesi di grano duro proprio nell’ambito delle prove della Rete nazionale, rileva De Mastro. «Tale differenza testimonia come sia fondamentale dare il via a un programma di ricerca nazionale coordinato e seriamente orientato alle esigenze della filiera del frumento duro, a partire dal settore sementiero. L’innovazione varietale è fondamentale e può beneficiare della costituzione di nuovi genotipi, in particolare se selezionati sul territorio. Le competenze nazionali nel settore sono numerose e altamente qualificate, mentre i finanziamenti per la ricerca e sviluppo sono limitati ed estemporanei, senza garantire continuità e sinergie tra le diverse istituzioni di ricerca»