Se stilassimo una classifica delle colture di ripiego per antonomasia, il pisello proteico salirebbe molto probabilmente sul podio: considerato da tutti – quando è il momento di trovare qualcosa da mettere in un terreno marginale o stressato per eccesso di asportazioni – ma coltivato da pochi, talvolta pochissimi.
Non basta essere piante miglioratrici del terreno, nell’agricoltura moderna. Né avere un evidente sbocco nell’industria zootecnica: per essere scelti contano, prima di tutto, la resa – agronomica ed economica – e la facilità di gestione. Il pisello fatica ad avere la prima e talvolta anche la seconda, per cui è stato, nel tempo, progressivamente messo da parte, perlomeno da chi non ha una stalla in cui valorizzare il prodotto.
Alla ricerca di opportunità
Mentre gli agricoltori sembrano aver chiuso la questione, sul fronte istituzionale le cose vanno diversamente. Convinti delle virtù di questa leguminosa, gli enti pubblici fanno il possibile per promuoverla. Per esempio, la Pac le ha dato una grande opportunità, attraverso il greening e l’inserimento delle proteiche tra le colture ammesse sulle Aree di interesse ecologico (Efa), ma anche con la possibilità di dotarla di aiuto accoppiato. Di conseguenza, i Psr attualmente in fase di studio o freschi di approvazione prevedono misure specifiche di sostegno a favino, lenticchie e, appunto pisello proteico.
Anche nel mondo della ricerca scientifica c’è chi da tempo cerca di promuoverne lo sviluppo, convinto che possa rappresentare una valida spalla ai cereali e anche un’alternativa alle massicce importazioni di soia dall’estero. Tra i sostenitori del pisello proteico troviamo sicuramente Stefano Tavoletti, docente di Genetica agraria dell’Università Politecnica delle Marche. «Il vero problema non è agronomico ma economico, per la bassa produttività e, anche, il basso prezzo del pisello. Per questo motivo stiamo lavorando, in collaborazione con colleghi internazionali, per trovare varietà più produttive. Inoltre ci spendiamo per creare realtà di filiera all’interno delle quali le proteiche nazionali possano essere adeguatamente valorizzate».
Secondo Tavoletti, il futuro del pisello proteico passa infatti da un’alleanza tra produttori e utilizzatori. «Poiché gli agricoltori chiedono prezzi remunerativi e gli allevatori proteine a costo accettabile, la soluzione è realizzare sistemi integrati che vadano dal campo alla stalla e che diano anche la possibilità di gestire i prezzi delle materie prime». In altre parole, concordare un prezzo equo con gli allevatori. «Esattamente. Coltivare pisello per venderlo sul mercato non è premiante, ma potrebbe diventarlo coinvolgendo le stalle, che hanno bisogno di un’alternativa nutrizionalmente valida ed economicamente sostenibile alla soia».
Calmiere per la soia
I problemi di quest’ultima, sostiene Tavoletti, sono noti e difficilmente risolvibili. «In primo luogo abbiamo la forte oscillazione dei prezzi, che in certi periodi fa schizzare i costi di produzione di latte e carne, togliendo ogni guadagno agli allevatori. In un quadro del genere, il pisello proteico può fare da calmiere, sostituendo parzialmente o totalmente la soia nei momenti di picco. Secondariamente non dobbiamo dimenticare il nodo degli Ogm: gran parte della soia utilizzata a fine zootecnico proviene dall’estero e non ne è garantita la non-transgenicità. Sul mercato esiste anche soia certificata come non Ogm, ma costa il quadruplo dell’altra e questo comporta un ulteriore pesantissimo balzello per gli agricoltori».
Balzello che in alcune regioni sta diventando inevitabile. «Le Marche, per citare una realtà che conosco bene, hanno inserito nel Psr l’uso di soia non Ogm come vincolo per la concessione di contributi, rendendo molto onerosa l’alimentazione degli animali. Sostituendola con favino o pisello proteico è possibile ridurre la sua incidenza sul litro di latte o il chilo di carne, in particolar modo per la filiera biologica, dove la redditività del prodotto finale non impone performance produttive esasperate come per l’allevamento intensivo. Senza contare – continua Tavoletti – che in questo modo si dà anche spazio a una coltura locale, favorendo una filiera più eco-sostenibile e anche la conservazione del territorio».
Non soltanto azoto
Che le leguminose facciano bene al suolo non è ovviamente una scoperta. Tuttavia, fa notare il docente marchigiano, i benefici non si limitano alla funzione azoto-fissatrice. «In primo luogo, pisello e favino apportano nella razione alimentare una quota di amido, per cui riducono il fabbisogno di mais, che nella nostra zona ha costi di irrigazione proibitivi. In più l’uso di queste proteiche sostituisce anche parzialmente gli insilati, altra coltura molto penalizzante per il territorio marchigiano. Dal punto di vista agronomico – prosegue il docente – il pisello lascia un terreno in perfette condizioni per i cereali: qualsiasi agricoltore che abbia provato questa rotazione è pronto a confermare che il grano, in successione, ha rese superiori alla media. Inoltre, se seminato a novembre, assicura la copertura dei terreni nel periodo invernale, limitando dilavamento ed erosione, che nelle zone collinari sono un problema molto serio».
Semina: primaverile o autunnale?
L’accenno alla copertura dei terreni è un buono spunto per chiarire il nodo della semina: meglio a primavera o in autunno, come peraltro raccomandato da alcuni Psr? «Il periodo migliore sarebbe la fine dell’inverno, anche per non avere problemi di eccessivo sviluppo vegetativo. Tuttavia non tutti i terreni consentono di entrare in campo in quella stagione. Quelli marchigiani, per esempio, in caso di pioggia restano impraticabili per settimane. Per questo da noi preferiamo intervenire a novembre, in contemporanea o nelle settimane immediatamente successive la semina del grano. Naturalmente, scegliendo le varietà che resistano alle basse temperature».
La semina, continua Tavoletti, è sostanzialmente il momento in cui si decide il successo o meno dell’intera stagione. «Un investimento ben fatto rappresenta davvero il punto di svolta, sia per la resa sia per la sostenibilità ambientale. Il pisello è una pianta molto competitiva: se nasce al momento giusto soffoca quasi tutte le infestanti e può fare anche a meno del diserbo. Inoltre arriva a rese di rispetto: abbiamo avuto, in stagioni particolarmente favorevoli, fino a 35 q/ha in agricoltura biologica (dove il pisello è praticamente d’obbligo, per portare azoto nel suolo, ndr). Mediamente – continua il genetista – la resa nel biologico è invece di 2,3 tonnellate l’ettaro, che arrivano a 3 e mezza con l’agricoltura convenzionale».
Problemi colturali
Dal punto di vista agronomico non vi sono particolari difficoltà: «Facciamo prove in campo da ormai un decennio e abbiamo realizzato anche importanti progetti con cooperative zootecniche del territorio, in modo da favorire l’uso del pisello proteico nell’alimentazione delle stalle da latte. I risultati sono incoraggianti e non si hanno controindicazioni: per esempio, non trasmette alcun sentore particolare al latte come avviene, invece, per il favino nero. Gli unici inconvenienti colturali sono la sensibilità alle orobanche, soprattutto in stagioni calde e siccitose, e i problemi alla raccolta».
Le orobanche, continua Tavoletti, possono ridurre il raccolto anche di due terzi e per tale motivo si stanno cercando varietà resistenti. «La raccolta meccanica deve invece fare i conti con allettamento e fenomeno della deiscenza, ovvero l’apertura dei baccelli, che provoca la perdita di un 15-20% del prodotto. Si prova a ovviare con l’impiego di varietà dal forte sviluppo vegetativo, che facilitano l’azione dell’aspo e dunque anche la raccolta di prodotto allettato. In ogni caso, occorre uno sviluppo genetico che, con la creazione di filiere ad hoc, può rendere questa coltura un’interessante alternativa per la rotazione».
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