Va in scena un nuovo capitolo della saga ogm in salsa europea: dopo che lo scorso 11 febbraio il Consiglio Ue non è riuscito ad esprimere un parere qualificato sull’autorizzazione alla coltivazione del mais Pioneer 1507, la palla torna nelle mani della Commissione, “legalmente obbligata” a dare il via libera, ma fortemente intenzionata a restituire la patata bollente agli Stati membri, questa volta in forma definitiva.
Per orientarsi in questo caos di rimpalli occorre fare un passo indietro: tutto inizia tredici anni fa, quando la Pioneer Hi Breed chiede all’Unione europea l’autorizzazione per la commercializzazione del mais transgenico resistente alla piralide e ad altri lepidotteri; arrivano sei pareri positivi dell’Efsa, ma non giunge alcuna risposta. L’azienda chiama così in soccorso la Corte di Giustizia europea che lo scorso settembre condanna la Commissione per inadempienza, obbligandola a procedere nell’iter decisionale entro il termine del 12 febbraio. Un giorno prima della scadenza, il Consiglio europeo tenta di affrontare la questione, ma rimane impantanato nella palude della maggioranza “qualificata”: non bastano infatti i “no” di 19 Stati membri, tra cui l’Italia, per bloccare la decisione, che torna così dalla Commissione, questa volta intenzionata a dare il proprio benestare, nonostante la pioggia di proteste di associazioni ambientaliste e agricole, ma soprattutto della richiesta formale di 12 Paesi membri, tra cui l’Italia, di ritirare la proposta.
La fermezza dell’Esecutivo nasconde in realtà altro: la non-decisione sarebbe infatti l’occasione d’oro per chiudere finalmente la partita della revisione della direttiva sugli ogm, arenata dal 2010, che attribuisce a ciascun Paese la libertà di scegliere anche in base a considerazioni di natura socio-economica e non solo scientifica. Con le elezioni europee alle porte e una larga parte dei cittadini contrari al biotech nei campi, la mancata risoluzione della vicenda del mais 1507 rischia infatti di allargare le fila degli euro-scettici e trasformarsi in un boomerang politico.
«Per noi il rammarico più grande è che si sia approfittato nuovamente dell’occasione per iper-politicizzare un tema che di politico non dovrebbe avere niente» spiega Paolo Marchesini, responsabile delle relazioni istituzionali per il Sud Europa di Pioneer. L’azienda, assicura, sta vivendo questi giorni in maniera «rilassata, serena. Con le dovute precauzioni, visto che sono passati più di 12 anni, ci aspettiamo una risposta nell’arco di giorni, settimane, non certo di mesi. L’obiettivo commerciale è l’annata 2015. Intanto stiamo a guardare come evolve questo ennesimo teatrino, che fa riflettere amaramente sull’incapacità politica dell’Ue di assumere delle decisioni».
Non solo: per Marchesini la questione travalica anche questo confine: «la domanda di fondo è: l’innovazione, in qualunque campo, ha ancora spazio in Europa o no?». Sulla nazionalizzazione della decisione il responsabile di Pioneer si dice cauto: «Anzitutto ricordiamo che siamo arrivati fino a questo punto a causa di scelte o non scelte degli stati membri. Ad ogni modo non siamo contrari a priori a una nazionalizzazione delle decisioni, anche perché, come ogni società, siamo interessati ad entrare in quei mercati in cui c’è positiva accoglienza. L’importante però è che questo processo segua criteri di definizione quantomeno oggettivi e non morali o etici».
Insomma la saga non sembra intenzionata a concludersi: se ne riparlerà molto probabilmente in estate, dopo il voto europeo di fine maggio. Entro quella data i 28 membri dell’Ue potrebbero presentarsi con un messaggio più chiaro sul biotech, per non perdere o per intercettare qualche elettore in più.
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