La mandorlicoltura può essere competitiva solo se diventa una coltura specializzata che merita attenzioni alla pari di altre colture di pregio (come l’uva da tavola o l’albicocco), alle quali vengono riservati terreni non marginali, se fa ricorso a soluzioni tecniche che razionalizzano e rendono efficiente il ciclo produttivo, se organizza l’offerta del prodotto aggregando la produzione. È quanto ha affermato Luigi Catalano, agronomo di “Agrimeca grape and fruit consulting srl” ed esperto di mandorlicoltura, in occasione del convegno sulla frutta secca made in Italy organizzato di recente a Termoli (Cb).
«Terra di elezione della coltura del mandorlo in Italia è stata la Puglia, dove si diffuse a partire dalla seconda metà del 1800 a seguito della riduzione delle superfici a vite per l’epidemia di fillossera. In pochi decenni la Puglia raggiunse la leadership mondiale nel settore, basti pensare che fino agli anni ’60 del secolo scorso la quotazione delle mandorle presso la Borsa merci della Cciaa di Bari costituiva il mercuriale di riferimento per le borse merci del resto del mondo! Dal secondo dopoguerra la mandorlicoltura italiana, e pugliese in particolare, iniziò un lento ma continuo declino, testimoniato dal calo delle superfici (tab. 1). Infatti veniva ancora concepita secondo gli schemi illustrati da Columella 2000 anni fa! Invece in California, nello stesso periodo, la coltura abbandonava lo schema mediterraneo, introdotto dai monaci spagnoli, che avevano relegato il mandorlo sulle aride colline, e si spostava nei fertili fondovalle, occupando, come il pesco e l’uva da tavola, le migliori terre, con grandi disponibilità d’acqua (irrigazione per scorrimento), e facendo massiccio ricorso alla meccanizzazione. Nel quarantennio 1965-2005 la California è passata dal 20% al 70% della produzione mondiale, raggiungendo nel 2011 l’80,2% della produzione mondiale di mandorla sgusciata. Nello stesso periodo l’Italia è scesa dal 17% al 4% della quota di mercato».
Gran parte della mandorlicoltura italiana, ha sottolineato Catalano, è ancora obsoleta, legata a schemi colturali tradizionali (tab. 2), tanto da rendere difficile la reale valutazione del potenziale produttivo in un mercato internazionale sempre più complesso.
«Invece il mandorlo può costituire una grande opportunità economica a patto che venga intesa, in aree vocate quali la Puglia, come una coltura specializzata e intensiva, che merita attenzioni uguali a quelle riservate a colture di pregio quali fruttiferi e uva da tavola. Il mandorlo può facilmente integrarsi nell’ambito di ordinamenti aziendali differenti, senza richiedere eccessivi investimenti e facendo ricorso alle stesse macchine per la raccolta meccanica delle olive, come gli scuotitori con ombrello rovescio, assicurando una redditività soddisfacente».
Ulteriore prospettiva, ha sostenuto Catalano, è il passaggio al sistema di impianto superintensivo o ad alta densità, che si caratterizza per la gestione non di singole piante ma di una parete, con elevatissimo grado di meccanizzazione. «Questo nuovo modello, elaborato, come per l’olivo, in Spagna, punta a conseguire la riduzione della mole degli alberi, con il ricorso a portainnesti seminanizzanti e nanizzanti adatti per impianti fitti e superfitti, e quindi la completa meccanizzazione, la riduzione del periodo improduttivo delle piante, maggiori rese produttive degli impianti, maggiore efficienza d’uso delle macchine, dei cantieri di lavoro e della manodopera».
Da questa impostazione di fondo deriva che il modello superintensivo garantisce numerosi vantaggi: rapida entrada in produzione, maggiore precocità nell’ottenere alte produzioni, elevate rese produttive, riduzione dei costi colturali, ricorso alla stessa macchina per la raccolta meccanica di olivo e vite, potatura completamente meccanica, rapido ammortamento dell’impianto.
«Non mancano tuttavia limiti: gli elevati costi iniziali di investimento, cioè maggiori spese di impianto e più elevate quote di ammortamento dell’investimento iniziale; la tecnica colturale molto accurata; la maggio re difficoltà a mantenere costante nel tempo la produttività e l’efficienza del frutteto; la minore durata fisiologica ed economica dell’impianto; la disponibilità di volumi irrigui importanti, che in annate con scarsa piovosità, possono richiedere fino a 5.000 m³/ha. Però alcuni di questi inconvenienti possono essere evitati se il frutticoltore ne ha conoscenza e possiede grande perizia professionale. Tuttavia attualmente si stima che siano stati impiantati a mandorleto superintensivo 3.000 ettari in Usa, 1.500 in Spagna e oltre 100 ha in Puglia. Anche il mandorlo, forse a torto ritenuta pianta che sfugge al progresso e all’evoluzione tecnologica, potrà godere dei risultati della ricerca, sperimentazione e innovazione. Il rifiorire del mandorlo in Italia è legato ancora una volta alla capacità di interpretare l’innovazione e di fare sistema, nell’interesse comune da perseguire, e al gioco di squadra che si saprà esprimere».
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