Quando gli argomenti della ragione falliscono forse è meglio cambiare strategia, usando come leva di persuasione gli argomenti dell’emozione. L’agricoltura emoziona il grande pubblico: è un’attività legata alla nostra terra, al nostro paesaggio, alla cucina, alla tradizione, alla biodiversità, all’orgoglio di essere italiani. E in questo quadro sentimentale sembra non esserci posto per l’innovazione, vissuta a torto come antitesi della tradizione. A meno che l’innovazione non venga proposta come arma di difesa e valorizzazione della nostra tipicità, qualità e biodiversità.
Questa la strategia adottata da Confagricoltura, che in Expo ha organizzato l’incontro, “Geni italiani”, per lanciare al Governo (assente però il ministro Maurizio Martina) l’appello a (ri)aprire alla ricerca genetica in Italia. Una ricerca da modellare sulle nostre specificità.
«Esiste – ha spiegato il presidente di Confagricoltura, Mario Guidi – una “via italiana” per superare la controversa questione dell’impiego degli ogm in agricoltura e l’Italia la deve imboccare senza esitazione».
Gli ogm non convincono, non piacciono, non sono stati accolti dal pubblico. E questo, è stato ricordato nel corso dell’incontro, nonostante si siano dimostrati nel mondo un prodotto di successo. Preso atto di ciò, occorre voltare pagina, superando la sterile diatriba sì/no. Perché, mentre la polemica è rimasta ferma a 20 anni fa, la scienza è andata avanti: «Oggi – ha ricordato Michele Morgante, dell’Università di Udine – abbiamo a disposizione nuove tecnologie che si basano sulla conoscenza dei geni e del genoma e ci consentono di ottenere varietà migliorate non transgeniche, identiche a quelle che si otterrebbero attraverso i meccanismi naturali. Farlo ci conviene. Le nostre colture tradizionali, vite, olivo, frutta, hanno bisogno del miglioramento genetico. Possiamo usare meno chimica, avere rese migliori, resistenza a stress, a malattie». Morgante sta lavorando sulla vite, attuale utilizzatrice del 65% di tutti i fungicidi d’Europa. Con l’Università di Udine ha realizzato un progetto per aumentarne la resistenza attraverso breeding tradizionale. «Abbiamo ottenuto buoni risultati, ma ci abbiamo impiegato 15 anni. Inoltre dagli incroci sono venute fuori varietà completamente nuove, diverse da quelle di partenza, e questo nel mondo del vino è un handicap. Con la biotecnologia, penso in particolare alla cisgenesi e al genome editing, avremmo potuto ottenere, in un terzo del tempo, varietà tradizionali migliorate».
Ma non c’è solo il vino: «Tra il 1992 e il 2003 – ha ricordato Roberto De Fez, del Cnr di Napoli – in Italia avevamo circa 300 sperimentazioni in pieno campo, con 24 differenti tipi di piante. Non stiamo parlando di commodities come mais e soia, ma di pomodori, ciliegie, olivi, fragole, albicocche, kiwi, “distrutti” per decreto ministeriale. Quello che chiediamo è solo ricominciare a fare ricerca a favore della nostra agricoltura e del made in Italy».