L’agricoltura contemporanea è chiamata ad assolvere molteplici compiti, oltre a quello meramente produttivo.
Tra i più importanti c’è la tutela ambientale e del paesaggio, unito a un insostituibile presidio sul territorio nelle cosiddette “aree marginali” del Paese, soggette a decenni di incuria e spopolamento.
Pensiamo anche ai tanti progetti didattici che coinvolgono le aziende agricole, a come cioè l’attività del settore si declini anche nell’educazione. Tutto questo si riassume nell’idea di ”funzione sociale dell’agricoltura”.
In un passato neppure troppo remoto si è sentito parlare spesso – sulla falsariga di quanto avviene nell’industria – dell’importanza delle economie di scala, di come cioè le piccole dimensioni aziendali rappresentassero un limite per la redditività delle imprese agricole.
Oggi, per contro, ci rendiamo conto che le piccole dimensioni talvolta non solo non risultano penalizzanti, ma addirittura possono rappresentare un vantaggio.
È quel che accade nell’ambito della tutela della biodiversità, oggi riconosciuta come prioritaria anche da una legge dello Stato, custodita e promossa da produttori di piccola scala che rivendicano orgogliosamente un legame con il territorio e un’identità culturale.
La buona reputazione del Made in Italy alimentare in tutto il mondo, del resto, è legata alle ricchezze dei prodotti tipici, che sarebbe impossibile da garantire per il futuro senza un adeguato patrimonio di biodiversità.
Il lavoro dei “custodi di biodiversità” contribuisce così al prestigio di un intero settore, assicurando una ricchezza che sarebbe impossibile quantificare secondo i classici parametri.
Altrettanto importante è la funzione educativa, rivolta non solo ai più giovani ma anche agli adulti. Attraverso l’agricoltura è possibile ripristinare un legame con la naturalità, la stagionalità e la territorialità del cibo.
Oggi si fa un gran parlare del ritorno alla terra, ma un processo di questo genere non può non essere accompagnato da nuovo approccio che tenga conto di questi fattori.
Ovviamente non possiamo pensare che un’azienda agricola, anche di piccole dimensioni, non sia sostenibile anche dal punto di vista economico. I marchi di qualità (Dop, Igp, Bio) rappresentano strumenti validi, ma non bastano.
È necessario, per un Paese come il nostro, uscire da una logica competitiva impostata soltanto sul prezzo.
Quanto è accaduto in alcune filiere – come quella del latte o del grano – dovrebbe infatti convincerci che ormai non è più possibile restare competitivi sulle economie di scala. Ancor meno in un sistema naturalmente frazionato come quello italiano. Al contrario, scegliendo di investire nella riconoscibilità delle produzioni si possono assicurare vantaggi per tutti gli attori, compresi i consumatori che si troveranno di fronte a una possibilità di scelta decisamente più ampia.
Commettiamo un errore se leghiamo l’agricoltura di piccola scala a una visione bucolica e romantica del mondo rurale.
Il rispetto per la terra può coniugarsi a una visione economica concreta e consistente, a patto che vengano compiuti i passi giusti in questa direzione. A partire dal legislatore che dovrà tenere conto delle peculiarità di queste aziende agricole su alcuni temi quali la burocrazia. Ma anche il consumatore dovrà fare la propria parte, prestando maggiore attenzione al momento della spesa al proprio fornitore di cibo.
di Gaetano Pascale
presidente di Slow Food Italia