Nelle economie sviluppate, oggi, gli alimenti sono in eccesso. E i prezzi sono bassi. Cosa deve fare l’agricoltura italiana di fronte a questa situazione? Inseguire il modello Usa, verso una maggiore competitività basata sui prezzi? No, saremmo sempre perdenti, non copiamo gli Usa. Allora bisogna chiedere dazi e protezionismo? Questa direzione, è attualmente molto di moda in Italia, alimentata dalla tesi del sovranismo.
Il protezionismo è una via fallimentare. L’agricoltura italiana è vocata all’esportazione. L’unica strada: l’agroalimentare italiano deve orientarsi alla distintività, alla qualità e alle filiere tracciate e organizzate. Il mercato ci dà ragione. Infatti, se è vero che nelle economie sviluppate, oggi, gli alimenti sono in eccesso, contestualmente la nuova economia attribuisce ai prodotti alimentari sempre meno un valore d’uso e sempre più un valore emozionale. In questo senso, il made in Italy ha una grande forza e consente il passaggio dei nostri prodotti agricoli e alimentari da commodity a speciality. L’Italia è leader mondiale per numero di prodotti certificati e l’italianità è sempre più determinante nella scelta di alcune categorie di prodotto. Il 72% degli italiani vuole sapere tutto ciò che è contenuto nel cibo; il 71% apprezza le aziende trasparenti su origini e modalità di produzione, allevamento e coltivazione dei prodotti (Fonte: Nielsen, 2017).
L’italianità premia, con crescite dei consumi più elevate rispetto al resto del comparto food. Ad esempio nel settore del latte, il consumo dei prodotti senza origine segna un -4,9%, mentre il latte italiano è sostanzialmente stabile (-0,4%) e quello regionale o locale (sardo, toscano, piemontese, atesino) segna un +1,6%. La distintività è preferita dal consumatore, ma non basta! Le normative sull’obbligo dell’indicazione dell’origine, come quella della pasta, sono utili, ma non bastano. Occorrono gli altri attributi della qualità (gusto, facilità d’uso ecc.); ad esempio, non basta la carne italiana, occorre l’innovazione d’uso: il taglio della Chianina più venduto è oggi l’hamburger, non è la fiorentina. Il mercato vuole continuamente innovazione, anche nei prodotti tradizionali. Il consumatore, poi, chiede sempre più informazioni e vuole la certezza dell’origine, per cui le filiere devono essere tracciate. Affinché questo si avveri, in agricoltura, occorrono consapevolezza, unitarietà e saper fare gruppo.
Serve organizzazione per portare in modo efficiente il prodotto dal campo alla tavola; da questo punto di vista in Italia il sistema agroalimentare è molto indietro. Negli ultimi anni, il nostro Paese è evoluto verso imprese che producono molto bene, ma altrettanto importante è vendere bene. Un’impresa che non ha in mano la variabile “prezzo” non ha futuro. E per di più deve investire in comunicazione. Gli imprenditori agricoli italiani devono risolvere la frammentazione, con una cooperazione efficiente, fare economie di scala, logistica e avere la proprietà della marca. Non occorre solo integrazione orizzontale, ma soprattutto integrazione verticale.
Occorre l’unitarietà dell’offerta agricola e creare accordi e reti tra imprese agricole e industria alimentare di reciproco interesse economico. Altro punto importante sono le tecnologie digitali, necessarie per distintività, qualità, tracciabilità e organizzazione. Le tecnologie digitali sono una straordinaria opportunità per aumentare l’efficacia del modello agroalimentare italiano, soprattutto per le piccole e medie imprese. Lasciamo ad americani e argentini il compito di produrre per sfamare il mondo. Noi italiani facciamo cereali per le filiere tracciate, altrimenti è meglio smettere di fare cereali. Bisogna essere consapevoli che per noi non esiste una strada diversa dalla distintività, qualità, tracciabilità e organizzazione.