Ennesima riforma del sistema di controllo e certificazione del bio alle porte? C’è chi la chiede a gran voce nonostante siano passati solo cinque anni dalla combattuta emanazione del decreto ministeriale 20/2018.
Proprio quest’anno sono poi usciti i decreti di recepimento del Reg Ue 848/2018, con cui Bruxelles è entrata con decisione in questa materia, ma non basta.
Il biologico è diventato centrale per la nuova politica agricola comunitaria, ha davanti a sé la sfida di raggiungere in poco tempo l’obiettivo del 25% della superficie agraria (l’Italia con il 19% è in realtà già avanti con il programma, ma l’Unione europea, con l’8% è un po’ indietro) e il sistema di controllo sembra essere diventato improvvisamente il nodo maggiore da sciogliere per raggiungere questi obiettivi.
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Snellezza burocratica
Eppure l’obiettivo del legislatore europeo, quando ha immaginato un sistema misto pubblico-privato per realizzare quella che tutt’ora è l’unica esperienza di certificazione di processo nell’ambito agroalimentare, era proprio quello di coniugare efficacia a snellezza burocratica. Un obiettivo fallito?
Ricordo la prima versione del Reg. CE 2092/91- risponde Fabrizio Piva, Resp. Sviluppo e Sostenibilità della Coop. G. Bellini - pubblicato 32 anni fa e non occupava più di 70 – 80 facciate. Oggi il Reg Ue 848/2018 e i vari regolamenti applicativi collegati assommano ad oltre 300 facciate; non oso pensare il numero di pagine se aggiungiamo la normativa nazionale. Purtroppo l’elefantiasi della normativa non colpisce solo il biologico ma la nostra quotidianità. Ciò che è intollerabile è che si continui ad addossare agli organismi di certificazione la responsabilità di ciò quando invece sono vittime, al pari degli operatori, di tale sciagura.
Ciò comporta perdite di tempo, aumento dei costi, inefficienze e perdita di competitività delle filiere nazionali. Sicuramente non è un “male” solamente italiano, ma che senso ha pretendere una notifica di parecchie pagine quando in altri Stati membri è di due facciate e tutti i dati sono comunque contemplati nel fascicolo aziendale? È solo un esempio. L’obiettivo non solo non è stato raggiunto ma si è regrediti nonostante l’avanzamento informatico che in questo settore sembra aver complicato, invece che risolto, la vita a chiunque
Bio vuol dire fiducia
Biologico vuol dire fiducia e anche dai più recenti sondaggi emerge che oltre il 70% dei consumatori europei ripone fiducia nei prodotti biologici, merito anche delle peculiarità del suo sistema di controllo?
Il sistema di controllo, ed aggiungo di certificazione, del biologico ha da sempre dato prova di efficienza. È l’unico sistema regolamentato che fin da subito ha previsto che ogni operatore fosse “licenziatario”, ovvero certificato e singolarmente oggetto di valutazioni, verifiche ispettive, controlli di prodotto, etc.
Non solo, quindi, una certificazione di gruppo o di filiera come in tutte le altre certificazioni, volontarie e/o regolamentate - oggi peraltro prevista anche nel biologico - ma una verifica puntuale di ogni singolo operatore. Soprattutto un controllo di processo in cui la verifica sul prodotto serve a confermare o meno la “bontà” del processo: esattamente il contrario su cui sembra spingere il nuovo regolamento sempre più collegato a quello sui controlli ufficiali. Un allontanamento dal concetto della certificazione che porterebbe ad una perdita di efficienza.
Efficacia dei controlli
Più accentramento, meno odc, tariffe fissate per legge: alcune delle proposte di riforma della certificazione del bio sembrano volerla avvicinare ad altri sistemi di controllo, come quelli dei prodotti tipici (dop Igp) e del vino. Ci siamo presi la briga di verificare: dall’analisi dei dati Icqrf degli ultimi 15 anni emerge che il bio abbia le performance migliori (vedi figura). Il bio infatti registra solo il 6,6% di irregolarità contro il 14,01% del food e il 14,9% del vino. Un’efficacia che parla da sola?
Sono progetti di riforma in cui “la toppa è peggiore del buco”. Parecchi danni sono stati commessi con il D Lgs 20/2018, oggi lo si vuole peggiorare? Si vuole dare ascolto a chi desidera “normalizzare” il ruolo degli Organismi di Certificazione, ovvero ridurne la loro indipendenza (concetto base della ISO 17065 in base alla quale devono essere accreditati) trasformandoli in meri esecutori dell’attività ispettiva ove le decisioni vengono prese da un’autorità “grande fratello” (pubblica o privata?) con tariffe fissate per legge ed uguali per tutti? Sarebbe la negazione di quanto oggi è stabilito dalle norme di legge, poiché passeremmo dal concetto di certificazione a quello di verifica, dalla ISO 17065 alla 17020, trasformando la certificazione del bio in un vero e proprio controllo ufficiale.
Invece di puntare all’aumento della competitività fra differenti organismi che operano già oggi nell’ambito di un unico sistema di controllo, si vuole abbassarne il livello riducendone la competizione ed il miglioramento continuo. Sarebbe la distruzione di un sistema che fino ad oggi ha funzionato e che dovrebbe essere considerato un valore del sistema e non un inutile peso. Chi propone tali ricette sembra non conoscere il funzionamento dell’attuale sistema di certificazione o nutre obiettivi che poco o nulla hanno a che vedere con questo.
Tab. 1 Schemi di certificazione a confronto |
|
Media 2008-2022 | |
Biologico | |
Operatori irregolari | 8,50% |
Prodotti irregolari | 6,60% |
Food (Dop, Igp ed Stg) | |
Operatori irregolari | 15,70% |
Prodotti irregolari | 14,01% |
Vino (Dop, Igp ed Stg) | |
Operatori irregolari | 20,30% |
Prodotti irregolari | 14,90% |
Elaborazioni dai Report annuali Icqrf. I dati sono comprensivi delle irregolarità documentali e di etichettatura |
Il rapporto tra gli Odc e la funzione pubblica della vigilanza è davvero così difficile?
È sempre stato un rapporto complicato. La funzione pubblica sembra aver percepito il sistema di certificazione volontario che opera su base regolamentata alla stregua di un competitor e non vi è mai stata una vera integrazione fra sistema pubblico e sistema privato. Controllo ufficiale e sistema di certificazione non hanno mai integrato le loro visioni e funzioni secondo una “visione cooperativa”. Nella certificazione la decisione è il frutto di un “percorso di controllo” in cui le parti vengono coinvolte e sono responsabilizzate, non è quasi mai la decisione di una singola persona o di un funzionario che decide in modo autonomo sulla base di una norma. Questo deve essere vissuto come un valore e non come un vulnus all’indipendenza del sistema di controllo e certificazione. Così come corrispondere un quid economico che copre i costi di controllo e certificazione non significa perdere la propria autonomia di giudizio. I temi su cui costruire un rapporto più sereno fra vigilanza e organismi di certificazione sono molti, è però necessario un approccio più collaborativo e sedersi dalla stessa parte del tavolo.
Valore, non costo
Sul fronte della sostenibilità ambientale il biologico deve affrontare oggi la concorrenza di sistemi non certificati oppure con sistemi di controllo più blandi. Un’eventuale deregulation del sistema di certificazione non rischia di penalizzare proprio la competitività del bio rispetto a questi sistemi?
Sicuramente il bio rischia di “perdere terreno”. Da tempo sostengo che il biologico debba misurare le proprie performance di sostenibilità, non solo enunciarne gli obiettivi, e con la certificazione attestarne i risultati. La biodiversità, le emissioni, il consumo idrico, il rilascio di sostanze cancerogene, mutagene o teratogene, l’eutrofizzazione sono solo alcuni dei parametri su cui il biologico è premiante rispetto ad altri sistemi produttivi e la certificazione può essere utile a dimostrare le positive ricadute ambientali di tale processo. Ridurre la certificazione al mero rispetto delle specifiche leggi del bio non contribuirà certo a migliorare la competitività del settore.
Oggi si punta molto il dito sui costi e su un presunto peso burocratico eccessivo dovuto alla certificazione lungo la filiera. Eppure è proprio dall’attività e dalla competenza degli odc che deriva quello che è uno dei caratteri distintivi del biologico, sostenendone la reputazione e consentendo l’equivalenza negli scambi internazionali. Abbiamo perso l’occasione per valorizzare questo atout?
Se il sistema delle imprese ritiene che l’incidenza del costo di certificazione, inferiore all’1% sul fatturato, sia il principale problema per la competitività del settore, addirittura proponendo un credito di imposta, credo che abbiamo qualche problema, e non piccolo. Trasformare la certificazione in un costo e in un problema e non in un valore da proporre al mercato ed al consumatore è semplicemente un autogol. Significa far perdere i caratteri distintivi di un settore ed appiattire il biologico alle garanzie che può offrire qualsiasi altro settore. La certificazione non è un “male necessario”, ha invece permesso a molte delle 90.000 imprese agro-alimentari italiane di conoscere cosa significa lavorare in un sistema di qualità certificato che si pone l’obiettivo del miglioramento continuo, facendo prendere dimestichezza con la gestione delle non conformità, insegnando cosa significa segregare un prodotto, gestire un reclamo e tanto altro ancora. Ciò porta il sistema a competere sui mercati più interessanti dal punto di vista economico sia in ambito europeo che internazionale. Sul tema dei costi tutti devono fare ovviamente la loro parte ed aumentare l’efficienza: la certificazione in oltre trent’anni di attività ha ridotto l’incidenza economica, in certi casi forse anche eccessivamente.
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