«Il settore agricolo sta attraversando un periodo molto complesso, per questo l’Europa deve sostenerlo e non tagliare le risorse della Pac». È il concetto ripetuto come un mantra dal presidente di Cia Emilia-Romagna Stefano Francia durante una chiacchierata durata quasi un’ora.
Questa bozza di nuova Pac non piace a nessuno.
«Intanto bisognerebbe almeno mantenere lo stesso budget di quella attuale. E poi la nazionalizzazione della Pac con il Fondo unico a mio avviso è molto rischiosa. Non è più una politica agricola comunitaria, così viene meno uno dei pilastri su cui si fonda l’Unione europea. Inoltre, si creerebbe uno squilibrio produttivo che metterebbe a rischio l’autosufficienza alimentare. Per questo si è deciso di scendere in piazza a Bruxelles».
La Commissione europea motiva il Fondo unico come elemento di semplificazione.
«Non lo è. Serve un’idea chiara di cosa si vuole fare per il settore agricolo europeo. Dare obiettivi da raggiungere e premialità per gli agricoltori che vanno verso quegli obiettivi. Altrimenti le disparità tra Stati aumentano. Avere una parte di risorse all’interno del Fondo unico porterà gli Stati a prendere decisioni non facili, perché dovranno scegliere tra agricoltura, welfare, trasporti e sanità».
Il ministro Lollobrigida ha detto che anche con il Fondo unico il settore primario non perderà un euro.
«Quando ci sarà da decidere se investire in sanità, riarmo, welfare o agricoltura, secondo lei come andrà a finire? E c’è un altro problema».
Quale?
«Con i tagli della Pac stimiamo che si perderanno 250mila posti di lavoro nel settore agricolo in tutta Europa».
E questo contesto non è certo favorevole al ricambio generazionale.
«L’agricoltura non ha più appeal da anni. Da quando si è cominciato a ritenerla un lavoro marginale o comunque un’opzione che non gratifica come l’immaginario collettivo oggi ritiene debba gratificare un lavoro. Poi incide anche il fatto che tutta una serie di fattori negli ultimi anni ha inciso negativamente sul reddito degli agricoltori. Conosco molti imprenditori agricoli di una certa età che sconsigliano ai figli di continuare l’attività. E poi nelle aree rurali mancano i servizi. È davvero un momento difficile per il settore».
L’abbandono dell’agricoltura si lega allo spopolamento delle aree interne.
«Le aree interne sono il tetto della casa. Devono essere manutenute per la sicurezza idrogeologica del nostro Paese. Ma per mantenere vive le aree interne serve garantire una redditività alle aziende agricole che lì si trovano».
Ma la nuova Pac con la degressività e il capping non andrà a premiare proprio le piccole aziende?
«Ma non è sufficiente. L’agricoltura delle aree interne del nostro Paese ha bisogno di una redditività per quello che produce ma anche di un’indennità per quello che fa per la tutela del territorio. E quello che viene riconosciuto oggi rispetto allo svantaggio competitivo è troppo poco rispetto ai sacrifici. La nuova Pac per come è oggi non tiene abbastanza conto di questo. Poi serve una sburocratizzazione per facilitare le operazioni di manutenzione. In Italia sembra che la burocrazia aumenti insieme al livello altimetrico».
Beh, la burocrazia è un nervo scoperto anche in pianura. Oggi stanno entrando in funzione sistemi digitali che promettono di semplificare e velocizzare i processi. Penso all’Area monitoring system introdotto da Agea per i controlli Pac. Ma gli agricoltori li vedono più come una minaccia che come un’opportunità. C’è un problema culturale?
«Trasformare un sistema analogico in digitale non è facile. Si sta facendo uno sforzo per avere una lettura più precisa e veloce delle aziende agricole. In alcuni casi si è riusciti, in altri ci sono stati dei rallentamenti. Ma la direzione è quella giusta. Digitalizzare tutti i processi è importante per avere una cornice unica all’interno della quale muoversi e una garanzia sull’utilizzo di dati che sono comunque sensibili e non devono andare in mano a chi vorrebbe speculare sul nostro settore».
Rinviare di un anno l’entrata a regime del quaderno di campagna elettronico è stata una scelta corretta o si è buttata la palla in tribuna per non scontentare gli agricoltori che vedono lo strumento come un’ulteriore complicazione?
«Scelta corretta e ponderata. Se si fosse iniziato il primo gennaio 2026 ci sarebbero stati grandi problemi. Un anno in più serve per apportare modifiche e integrazioni per semplificare lo strumento».
Finalmente a Bruxelles è stato trovato l’accordo sul regolamento per le Tea.
«Una notizia attesa da tempo da tutto il settore agricolo. Serve materiale sementiero e vivaistico che abbia maggior resistenza a freddo, siccità e cambi repentini di stagionalità. Le Tea devono essere messe al servizio degli agricoltori nel minor tempo possibile. Certe produzioni frutticole e orticole oggi hanno prezzi interessanti per gli agricoltori ma non si riescono a produrre per colpa del clima».
Le colture si difendono anche con gli agrofarmaci. L’Emilia-Romagna si può definire la culla della lotta integrata. L’Ue sta tirando troppo la corda con la riduzione delle molecole disponibili?
«Vero, la lotta integrata è stata una grande rivoluzione ma non è mai stata valorizzata come avrebbe meritato. Avere a disposizione gli agrofarmaci significa poterli utilizzare quando servono alternandoli per non creare resistenze, mentre l’Europa taglia le molecole senza una logica che abbia fondamenti scientifici. È una grande ingiustizia per i produttori ma poi si ripercuote sui consumatori, perché quello che non riusciamo a produrre in Italia lo importiamo da Paesi che hanno regole molto meno stringenti delle nostre. Dobbiamo batterci per questo, anche per far capire che la distribuzione degli agrofarmaci negli ultimi 10-15 anni ha fatto salti in avanti enormi. La nostra linea è: non si tolgono più molecole finché non c’è una valida alternativa».
Un altro problema per le aziende agricole è il reperimento della manodopera. Il governo è intervenuto sia aumentando il numero di stagionali che possono entrare in Italia, sia semplificando la procedura per l’assunzione. È sufficiente?
«Qualcosa è stato fatto ma l’emergenza resta. Non è solo una questione di numeri ma anche di specializzazione. Poi per certe colture serve personale qualificato per pochi giorni l’anno. Perciò è necessaria maggiore flessibilità, per garantire quelle filiere d’eccellenza che contraddistinguono il made in Italy agroalimentare».
Redditività a monte della filiera. Un nodo gordiano composto oltre che dalle criticità endogene ormai note, come scarsa aggregazione dell’offerta, concorrenza non sempre leale e speculazione finanziaria, soprattutto per le commodity, anche da un aspetto esogeno forse non abbastanza considerato: la perdita di potere d’acquisto dei salari che vede l’Italia fanalino di coda in Europa. Hai voglia a parlare di qualità.
«Chi paga la distorsione del sistema produttivo italiano sono agricoltori e consumatori. Oggi abbiamo prezzi degli alimentari in molti casi alti che una fetta sempre più ampia di popolazione fatica a permettersi, tipo il fresco. Però anche per le produzioni di qualità che hanno un prezzo a scaffale alto, il riconoscimento al produttore non è adeguato. Su questo serve tutelare di più gli agricoltori, altrimenti rischiamo di perdere certe produzioni. Ci sono filiere che con qualche centesimo in più al chilo potrebbero lavorare senza problemi, ma la mancanza di questi pochi centesimi le mette in grande difficoltà. Le leggi di mercato sono troppo brutte per il settore agricolo, servirebbe anche un’etica del commercio».
Il ministro Lollobrigida ripete spesso che nessun governo come questo ha destinato risorse all’agricoltura. Che voto dà all’esecutivo Meloni dopo tre anni?
«Un voto buono. Sono state fatte tante cose per il settore in questi anni, tante altre se ne possono fare. Alcuni aspetti meritano più attenzione, come le aree interne».
E la manovra in discussione la soddisfa?
«È abbastanza risicata. Cia ha presentato una serie di emendamenti, su tutti quello per modificare il sistema del credito d’imposta, altrimenti si dà un segnale che scoraggia gli investimenti delle aziende agricole».
Agea sta comunicando un’accelerazione dei pagamenti. È davvero così?
«Hanno pagato molto, un cambio di passo rispetto al passato c’è stato. La direzione è giusta ma bisogna continuare così».
Di recente si è svolto il forum Asnacodi. Si continua a dire che bisogna allargare la base assicurativa, ma finora non si è trovato il modo per avvicinare alla gestione del rischio le aziende cerealicole, dove la redditività è bassa se non nulla.
«Chi ha colture di pregio negli ultimi anni ha investito in difesa passiva e attiva. Nel Pgra 2026 la nuova conformazione di Agricat credo sia un’innovazione importante per gli agricoltori a partire dai tempi di liquidazione che saranno più veloci. Poi c’è una parte di aziende che devono capire che assicurarsi è importante perché il clima è cambiato. Una volta la grandine o l’eccesso di pioggia c’erano solo al Centro-nord, adesso ci sono pure al Sud, che deve fare i conti anche con la siccità. Servono prodotti assicurativi, da costruire insieme alle compagnie, che siano più interessanti anche per i cereali. Nella nuova Pac le risorse per la gestione del rischio devono essere maggiori rispetto all’attuale, altrimenti i contributi calano».
A proposito di clima che cambia. L’acqua è un fattore sempre più determinante per l’agricoltura, soprattutto al Sud. Possibile che anche con le risorse del Pnrr non si sia riusciti a migliorare le infrastrutture?
«Sull’acqua ci giochiamo il futuro dell’agricoltura ma più in generale di tutto il Paese. Gestire il deflusso delle acque e l’irrigazione è strategico».










