Niente di più trendy della sostenibilità, ultimamente, in agricoltura. Non sfugge alla regola la foraggicoltura, dove anzi il concetto di sostenibilità è stato declinato, da più ambienti agronomici, in molti modi diversi: sostenibilità ambientale ovviamente, ma anche sostenibilità economica, o sostenibilità qualitativa.
Ma vediamo cosa significano questi tre ambiti, dal punto di vista della gestione aziendale. E quali sono state alcune delle più innovative esperienze in merito.
Iniziamo magari dalla meno intuitiva delle tre declinazioni, la cosiddetta sostenibilità qualitativa. Dove la qualità cui si allude è la qualità del foraggio inteso come alimento zootecnico; e di conseguenza anche la qualità del latte che alla fine ne deriva.
Sostenibilità qualitativa
Ne discuteremo facendo l’esempio delle tecniche diffuse nei comprensori dei due grandi formaggi dop. Si tratterà di un esempio piuttosto rappresentativo dal momento che a Parmigiano e Grana padano viene destinato, nel complesso, il 40% circa di tutto il latte italiano.
L’esigente disciplinare del Parmigiano Reggiano. Sono diversi e impegnativi gli obblighi tecnici imposti a foraggicoltori e allevatori dal consorzio del Parmigiano Reggiano, in materia di produzione e gestione dei foraggi. In sintesi: divieto dell’impiego di insilati «di ogni tipo» nell’alimentazione delle bovine, per evitare la presenza nel latte di clostridi, che hanno attività anticasearia. E poi grande prevalenza dei foraggi nella razione, e di foraggi locali. I dettagli nel box pubblicato qui sotto.
Questi importanti obblighi e divieti, messi nero su bianco nel disciplinare di produzione, oggettivamente fanno aumentare i costi di coltivazione e di allevamento a carico dell’imprenditore zootecnico. Però alla fine attribuiscono al latte una qualità casearia superiore, come l’assenza di clostridi. E quindi se da una parte fanno aumentare i costi dall’altra fanno aumentare anche i ricavi.
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