Il recupero e il mantenimento delle risorse genetiche degli animali da reddito è un passaggio fondamentale per lo sviluppo della zootecnia. Per questo il Crea ha messo la questione al centro di un confronto tra ricercatori, tecnici e operatori svoltosi al Crea di Lodi lo scorso 15 maggio.
L’incontro, intitolato “Salvaguardia, conservazione e uso sostenibile delle risorse genetiche animali e dei sistemi acquatici”, è stato uno dei cinque incontri di avvicinamento al Convegno nazionale sulla Biodiversità, in programma dal 13 al 15 giugno presso l’Università di Teramo. Tutti e cinque questi incontri di avvicinamento sono denominati “Biodiversity Barcamp”, laboratori itineranti per la diffusione della cultura della biodiversità.
Tornando all’incontro di Lodi, questo si è articolato in tre tavoli di lavoro. E sono state due le “sfide” lanciate nel primo di questi tavoli di lavoro, cui hanno partecipato ricercatori di tutta Italia e come moderatore Luca Buttazzoni, direttore del Crea-Za (centro di ricerca Zootecnia e acquacoltura).
La prima sfida si è focalizzata sulla sostenibilità economica della conservazione di razze animali domestiche in Italia. «La biodiversità ha un valore universalmente riconosciuto – ha sottolineato Buttazzoni – e quindi ci si aspetta un sostegno, che però gli enti pubblici, anche a causa dell’attuale congiuntura economica, non possono garantire nel lungo termine. Da qui la necessità di un piano di sostenibilità anche autonomo dal contributo pubblico per la conservazione del la biodiversità».
La seconda sfida: come decidere quali razze autoctone salvare? Come ha rimarcato Buttazzoni, «la motivazione più forte per la conservazione delle razze è quella culturale. In Italia esiste inoltre un’attività abbastanza diffusa di ricostituzione su base fenotipica di razze estinte, anche se si dovrebbe più correttamente parlare non di ricostituzione di razze estinte, ma di costituzione di una “nuova” razza estinta. Biodiversità: in mancanza di certezze sui sostegni economici a lungo termine occorre immaginare sistemi alternativi capaci di valorizzare le produzioni zootecniche delle razze autoctone con tecniche di allevamento specifiche».
Inoltre è emerso che le razze autoctone, ha sottolineato sempre Buttazzoni, si possono inserire in percorsi produttivi a basso input ambientale e che l’allevamento non debba necessariamente essere quello intensivo della Pianura padana. «Esistono esperienze di allevatori come quella dell’azienda dei Fratelli Cornetti che allevando razze autoctone a basso input come la Bianca della Val Padana evidenziano una produttività addirittura superiore a quella della Frisona».
La seconda sfida ha preso in considerazione il grandissimo numero di razze autoctone esistenti in Italia e l’esigenza, più o meno percepita, di conservarle tutte. Gli sforzi economici dovrebbero comunque focalizzarsi su razze geneticamente distanti, ma è necessario anche diffondere l’uso di nomi alternativi per la medesima razza, come ad esempio è il caso della Bianca Modenese o della Bianca Val Padana per i bovini. È necessario anche chiarire come chiamare le razze autoctone ricostituite: è possibile usare il nome della razza ma anteponendo l’aggettivo “nuova”.