Con la pubblicazione nel 2006 del report della Fao “Livestock’s long shadow” tutti, paradossalmente, si sono sentiti autorizzati a imputare agli allevatori (di tutto il mondo) la responsabilità dell’aumento della concentrazione di gas ad effetto serra, che è ormai ritenuta la causa dell’innalzamento della temperatura terrestre e dei cambiamenti climatici.
Poi (ma ormai il danno era già stato fatto), con una lettura un po’ più attenta del documento, il problema si è ridimensionato e alla zootecnia è stato riconosciuto il suo giusto ruolo nell’emissione di gas serra. Secondo quello studio della Fao il 18% di tutte le emissioni spettavano al settore zootecnico. Ma questo era un valore globale, che comprendeva anche quei paesi in cui la pastorizia è di gran lunga la principale fonte di reddito.
A una lettura meno superficiale, è emerso che nei paesi più avanzati la responsabilità di questo settore è modesta se non insignificante, per due ottime ragioni. La prima, il suo ruolo economico, paragonato all’industria, ai trasporti e ai servizi, è molto inferiore. La seconda, in questi paesi la tecnica di allevamento è molto efficiente, poiché in quanto razionale fa grande attenzione a ridurre lo spreco di risorse e a migliorare il benessere e la salute degli animali.
Secondo l’Ispra nel 2014 le emissioni dal settore agricolo (metano e protossido d’azoto) rappresentano il 7,2% dei gas serra totali. All’incirca il 4,5% di questi derivano dall’allevamento animale. Un valore diverso da quello del settore energetico, il cui contributo ammonta invece a ben l’81%.
Questi dati dovrebbero essere tenuti ben a mente nelle scelte che ognuno nel proprio ruolo deve prendere: il politico nella formulazione delle norme che riguardano l’economia e l’ambiente, il comunicatore quando influenza la percezione delle ricadute ambientali, il cittadino nel momento in cui si domanda quali sono gli effetti dei suoi comportamenti. È banale, ma forse vale la pena di ricordare che l’unico modo realmente efficace per stabilizzare la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera è ridurre l’impiego di combustibili fossili.
Bisogna riconoscere tuttavia che sono in atto cambiamenti climatici importanti e che le prospettive non sono rosee se, come è stato accertato, la concentrazione media di CO2 nell’atmosfera ha superato i 400 ppm, un valore che i fisici climatologi considerano simbolico ed allarmante. Ciò significa che ciascuno deve fare la propria parte.
Gli allevatori italiani hanno fatto moltissimo da questo punto di vista. L’esempio più eclatante è fornito dal settore delle bovine da latte: grazie al miglioramento genetico, alla razionalizzazione dell’alimentazione e alla particolare attenzione al benessere animale è aumentata la produttività; e con essa l’efficienza, che poi permette di ridurre il valore di CO2equivalente associato a ogni litro di latte prodotto.
Nell’allevamento dei bovini da carne si sono ottenuti miglioramenti nelle prestazioni e nell’efficienza alimentare e si sono ridotte le emissioni per unità di prodotto. Ciò dimostra che gli obiettivi economici e ambientali spesso coincidono.
Per dimostrare che ulteriori miglioramenti sono possibili e che gli allevatori sono impegnati a rendere ancora più sostenibile il proprio lavoro, alcune importanti organizzazioni che li rappresentano hanno avviato il progetto Life Beef Carbon. Cofinanziato dalla Ue, coordinato dall’ Institut de l’Elevage francese, presentato alla 21a sessione della Conferenza delle Parti del United Nations Framework Convention on Climate Change (Cop 21 Parigi 2015), i numeri di questo progetto sono impressionanti: 27 partecipanti, 4 stati europei, 2mila allevamenti coinvolti.
Con il Life Beef Carbon gli allevatori intendono dimostrare che è possibile raggiungere l’obiettivo di ridurre le emissioni del 15% in dieci anni. Un obiettivo ambizioso, che sarà reso possibile dalla applicazione delle innovazioni tecnologiche e delle conoscenze acquisite negli ultimi anni, ma soprattutto dalla volontà degli allevatori di restituire dignità e valore al proprio lavoro.
L’articolo è pubblicato su Informatore Zootecnico n. 2/2017