L’Italia è uno dei paesi più dinamici nel trading di prodotti biologici, con un export che ha superato i 2,2 miliardi di euro e consumi interni ormai oltre i 4 miliardi. Con la crescita delle produzioni biologiche la strada dell’export diventa sempre più interessante per i nostri produttori. I prodotti biologici esportati devono però essere accompagnati da tutta la documentazione, predisposta dagli organismi di certificazione, che riconosce il rispetto della normativa adottata dal Paese importatore.
Con uno specifico webinar B/Open, rassegna dedicata al “bio foods & natural self-care” in programma (in streaming) il 23 e 24 novembre prossimi, e Assocertbio, associazione nazionale che certifica il 95% delle aziende biologiche italiane, hanno acceso i riflettori sui problemi connessi con le esportazioni del biologico.
«Non esiste purtroppo un “sistema globale” di certificazione del biologico ma ogni Paese impone le proprie regole – ricorda Riccardo Cozzo, presidente di Assocertbio -. Alcuni Paesi hanno siglato il mutuo riconoscimento della certificazione ma, in ogni caso, produzione, etichettatura e commercializzazione devono sempre sottostare alle normative nazionali».
In Usa niente solfiti
Fra i Paesi più interessanti per l’esportazione di prodotti italiani ci sono gli Stati Uniti dove il prodotto biologico è individuato dal logo “Usda Organic”sostenuto dal “national organic program handbook” che prevede tutte le norme applicative.
«Esiste un accordo Usa-Ue siglato il 1/6/2012 che prevede il mutuo riconoscimento fra i due paesi - spiega Roberto Maresca del Ccpb -. Resta il fatto, tra le altre cose, che le etichette devono rispettare la normativa Usa.
Sono esclusi dal reciproco riconoscimento i prodotti zootecnici (per la questione antibiotici) e il vino (per il quale è ammesso solo l’uso di anidride solforosa ma non dei solfiti)».
Alcuni produttori biologici italiani che esportano negli Usa però non si accontentano del mutuo riconoscimento, ma chiedono la certificazione locale Nop (National organic program), in aggiunta a quella Ue, per rafforzare il riconoscimento dei prodotti da parte dei consumatori americani.
Certificazione di filiera in Cina
La Cina prevede un reciproco riconoscimento dei prodotti biologici con i Paesi che hanno firmato un accordo relativamente al protocollo CNCA (Certification and Accreditation Administration of the People’s Republic of China). Al momento sembra però che solo la Nuova Zelanda abbia aderito.
Come ha riferito in streaming Qi Xu, responsabile della certificazione bio internazionale OFDC (Organic Food Development Center in China), la Cina è il quarto mercato al mondo con un valore delle vendite al dettaglio pari a 8,1 miliardi di euro, una cifra che lo colloca alle spalle di Stati Uniti (40,6 miliardi), Germania (10,9 miliardi) e Francia (9,1 miliardi di euro).
«I principali prodotti bio richiesti dal mercato cinese – spiega Qi Xu – sono quelli lattiero caseari, zucchero di canna, vino rosso, olio di oliva». La certificazione per l’export è rilasciata direttamente dagli enti cinesi attraverso una certificazione di filiera e la fase agricola viene ispezionata quando i frutti sono in campo.
È richiesto anche, come requisito preliminare l’analisi di aria, acqua e suolo. L’iter di certificazione prevede una serie passaggi, che terminano con l’applicazione di adesivi anti contraffazione sul prodotto messo in commercio.
Due strade per il Giappone
L’Asia è un continente in forte evoluzione, con mercati in crescita e interessati ai prodotti biologici. In particolare, come riporta Amalia Rueda, technical manager per le Attività internazionali di Bioagricert srl: olio di oliva, pasta, derivati del pomodoro e succhi ottenuti dagli agrumi.
«In Giappone - afferma la Rueda - il percorso per ottenere l’idoneità all’export dura anche meno di un mese, ma sono richieste specificatamente in etichetta l’indicazione di due figure chiave: un responsabile del processo produttivo e un responsabile della conformità dell’intero processo produttivo allo standard nipponico Jas».
Per esportare i prodotti in giappone si possono adottare due strade: l’ottenimento della certificazione Jas (che riconosce un’equivalenza con la certificazione auropea) oppure l’adozione di un importatore autorizzato. Nel primo caso si arriva direttamente allo scaffale, mentre nel secondo il prodotto deve essere rietichettato all’arrivo o subito prima dell’esportazione con le indicazioni dell’importatore.
B/Open solo su piattaforma digitale
Nonostante le perplessità suscitate, ha avuto ragione (e forse un po’ di fortuna) l’organizzazione del Sana a confermare la manifestazione nei giorni 9-10-11 ottobre presso la Fiera di Bologna.
Sana 2020, in versione Restart (ripartenza), che si è svolta in sicurezza e senza alcun problema, si è tenuta però in tono decisamente ridotto rispetto alle edizioni degli anni precedenti (circa un terzo degli espositori e un quinto di visitatori).
Comunque sia il Sana è stata l’unica fiera non virtuale organizzata da BolognaFiere (forse l’unica grossa manifestazione in Italia), dopo il primo picco della pandemia, e sicuramente l’unica del settore biologico.
B/Open, infatti, la nuova fiera del biologico organizzata da VeronaFiere per i giorni 23 e 24 novembre si terrà esclusivamente in streaming, su piattaforma digitale.
Il dpcm di domenica 25 ottobre ha infatti vietato convegni, assemblee, fiere e manifestazioni in presenza fino al 24 novembre (salvo ulteriori proroghe).
Ultim'ora. Anche il Biofach/Vivaness di Norimberga si terrà, dal 17 al 19 febbraio 2021, esclusivamente in digitale. La decisione è frutto di una concertazione fra la fiera e gli espositori, ai quali era stato richiesto di esprimersi attraverso uno specifico sondaggio.