A un mese dall’inizio della mietitrebbiatura, l’annata agraria 2023-2024 del grano duro si sta configurando in Italia come una delle peggiori degli ultimi 20 anni. La produzione prevista sarà di circa 3,5 milioni di tonnellate, con un calo del 10% rispetto all’annata 2022-2023 e del 15% sulla media di lungo periodo. È quanto ha affermato Pasquale De Vita, dirigente di ricerca del Crea Cerealicoltura e Colture Industriali di Foggia, in occasione dell’edizione 2024 dei Durum Days, l’evento internazionale organizzato e promosso dai principali protagonisti del comparto, Assosementi, Cia-Agricoltori italiani, Confagricoltura, Copagri, Fedagripesca Confcooperative, Compag, Italmopa e Unione Italiana Food, con il patrocinio della Siga (Società italiana genetica agraria), la collaborazione del Crea e la partecipazione tra i relatori di Areté e ICG (International Grains Council).
Dai Durum Days le previsioni sull'annata 2024
«L’incertezza intorno al dato finale è legata alla corretta stima delle superfici coltivate, poiché l’Istat indica ancora per la presente annata solo le intenzioni di semina in numero di ettari. Ma l’effetto combinato del calo delle semine rispetto alla scorsa annata (-10,6%) e del cambiamento climatico ha lasciato il segno. Lo stress termico causato dalle temperature nettamente più elevate durante l’intero ciclo colturale e lo stress idrico determinato anche dalla netta diminuzione delle precipitazioni hanno seriamente compromesso le rese nelle regioni durogranicole più vocate, cioè Puglia, Basilicata e Sicilia, le più vulnerabili al cambiamento climatico. Invece nelle altre regioni italiane le stime produttive sono molto buone, in esse resta solo l’incognita fitosanitaria per l’eccesso di piogge e umidità».
Areté: «Aumenta, però, la produzione mondiale»
Se per l’Italia le previsioni sono negative, il quadro internazionale sembra evolvere verso un aumento delle produzioni, ha rilevato ai Durum Days Carlotta De Pasquale, Market Analyst di Areté.
«Dopo il calo dello scorso anno, le produzioni di grano duro a livello mondiale quest’anno sono globalmente viste in ripresa, grazie alle maggiori produzioni di importanti paesi esportatori: Canada (+40%), Stati Uniti (+25%), Russia (+20%) e Turchia (+5%). Si tratta di aumenti che contribuiranno a incrementare le scorte finali di grano duro a livello globale per valori anche superiori all’8-10%. Le scorte finali resteranno tuttavia lontane dalle medie di lungo periodo. Tale contesto spiega bene le ragioni per cui i prezzi si manterranno lontani dai picchi registrati nelle ultime campagne, pur restando a valori storicamente alti».
Cia ai Durum Days: «Produttori senza redditività certa»
Oberati da costi di produzione alti, costretti dal cambiamento climatico a rese basse, schiacciati dalle importazioni e da prezzi variabili, ma tendenzialmente bassi, i produttori di grano duro non hanno affatto la redditività garantita, ha sostenuto Gennaro Sicolo, vicepresidente di Cia-Agricoltori italiani.
«Le semine diminuiscono perché non conviene più seminare grano duro. Occorre uscire al più presto da questa tempesta perfetta e programmare il futuro della cerealicoltura sulla base di regole certe. Regole che devono essere rispettate da tutti gli anelli della filiera così come fanno, con sacrifici enormi e grande rigore, gli agricoltori».
Italmopa: «Produzione bassa causa delle importazioni»
Quando si affronta il tema delle importazioni bisogna innanzitutto ricordare che la produzione italiana di frumento duro risulta strutturalmente deficitaria, in misura del 40%, rispetto alle esigenze quantitative, e talvolta qualitative, dell’industria molitoria nazionale, ha replicato Vincenzo Martinelli, presidente della Sezione Molini a frumento duro di Italmopa.
«Il fabbisogno nazionale di grano duro si attesta annualmente su 6,5 milioni di tonnellate destinate per la maggior parte all’industria della pasta, mentre in Italia ne vengono prodotti circa 4 milioni, occorre quindi importare in media 2,5 milioni di tonnellate. Si tende a criminalizzare le importazioni, ma in realtà sono imprescindibili e non alternative alla produzione nazionale».