"La filiera agroalimentare al centro della nuova strategia per il made in Italy”: è il convegno organizzato a Roma da Edagricole (leggi qui un breve resoconto) per riunire attorno a un tavolo istituzioni, governo, le associazioni agricole, gli industriali e i distributori per risolvere un'evidente contraddizione: l'italianità un punto di assoluta forza nell'agroalimentare, ma il nostro Paese è solo il quinto esportatore a livello europeo. Come rimediare? Angelo Frascarelli è stato uno dei più seguiti relatori della giornata, la sintesi del suo intervento è stato pubblicato come editoriale al numero 31 di Terra e Vita
È facile parlare bene del Made in Italy agroalimentare; troppo facile! Ma è sufficiente per la competitività e la crescita dell’agricoltura italiana?
«Il prodotto agroalimentare italiano si vende da solo; l’individualismo italiano lo uccide”, diceva un imprenditore. Certamente il Made in Italy ha una grande reputazione: secondo Google, “Made in Italy” è il terzo brand al mondo per notorietà dopo “CocaCola” e “Visa”.
L’Italia è leader mondiale per numero di prodotti certificati. Il cibo, l’alimentazione, la cucina, la gastronomia, la cultura alimentare italiani sono sinonimi di fascino e attrazione in tutto il mondo.
Il 72% degli italiani vuole sapere tutto ciò che è contenuto nel cibo; il 71% apprezza le aziende che sono trasparenti su origini e modalità di produzione, allevamento e coltivazione dei prodotti (fonte: Nielsen, 2017).
Il mercato ci dà ragione. Il made in Italy agroalimentare aumenta le sue esportazioni.
L’italianità è un fattore competitivo straordinario in questo momento. Nelle economie sviluppate si attribuisce ai prodotti alimentari sempre meno un valore d’uso e sempre più un valore emozionale. In questo senso, il Made in Italy consente il passaggio dei nostri prodotti agricoli/alimentari da commodities a specialities.
Allora tutto bene? Assolutamente no! Crogiolarsi dietro la reputazione dell’agroalimentare italiano è una visione ricca di illusioni.
La distintività basata sull’italianità è preferita dal consumatore, ma non basta. Il cibo italiano piace nel mondo, ma per export siamo solo quinti in Europa, dopo Olanda, Germania, Francia e Spagna.
Il passaggio dal campo allo scaffale, dalla produzione al consumo è estremamente complesso e richiede livelli di organizzazione e di efficienza molto più elevati rispetto al passato.
Perché la Spagna ha sostituito l’Italia in molte esportazioni ortofrutticole europee? Per la migliore organizzazione commerciale degli spagnoli. Le arance siciliane spesso sono qualitativamente superiori, ma senza continuità e omogeneità non si vendono.
Il mercato ha selezionato le capacità organizzative e ha penalizzato l’Italia, mentre ha favorito i Paesi che hanno sviluppato migliori capacità di dialogo con le nuove formule distributive e di consumo.
Mi capita spesso di essere interpellato da produttori italiani che lamentano le difficoltà nel vendere i loro ortaggi, frutta, olio di oliva, formaggi, salumi. Sono produzioni ottenute in piccole aziende, in quantità limitata e di pezzatura e qualità variabile, senza omogeneità e continuità dell’offerta, senza una logistica adeguata.
La frammentazione delle Istituzioni è ancora peggio di quella dei produttori.
Quanti soggetti si occupano di promuovere i prodotti italiani all’estero? Ice (Agenzia per la promozione all’estero), Regioni, Consorzi per l’export, Camere di Commercio, Comuni, Gal, Consorzi di tutela. Troppi!
L’individualismo italiano non è sempre negativo: è una risorsa quando stimola la genialità del singolo. Ma poi uccide, se non riesce a organizzare il passaggio del prodotto dal campo al consumatore.
C’è una strada da seguire: l’aggregazione, l’organizzazione e la creazione di reti orizzontali (tra agricoltori), verticali (tra attori della filiera) e trasversali (tra imprenditori, soggetti istituzionali, agenzie turistiche, gastronomia). Sia gli imprenditori che le istituzioni devono lavorare in questa direzione. L’agroalimentare italiano è una risorsa straordinaria, ancora inespressa.
Basta autoincensarsi! Il salto da fare è nell’organizzazione.
Editoriale al numero 31 di Terra e Vita