Volge finalmente a termine una campagna elettorale dai toni alquanto urlati e nervosi, durante la quale si è parlato poco e spesso male di economia e dei nostri sistemi produttivi e in particolare dell’agroalimentare, un comparto che pure con i suoi 132 miliardi di euro rappresenta una delle voci più importanti del Pil nazionale. Spiace constatare come gran parte della classe dirigente che si candida a governarci non abbia una “visione” del modello agroalimentare intorno alla quale orientare decisioni politiche e strategie.
In un contesto di forte disorientamento sia dei consumatori che della parte produttiva, ci sono allora quelli che individuano nel chilometro zero il modello per la nostra agricoltura o quanti evocano il ritorno bucolico ad un’agricoltura che non c’è più, o ancora quanti parlano del biologico come dell’unica nuova frontiera del nostro agroalimentare. C’è bisogno di un modello che in primo luogo consenta al nostro agroalimentare di affermarsi oltre i confini nazionali: è impensabile che, con il patrimonio di eccellenze e di aziende di cui l’Italia è ricca, si possa vivere fuori da un contesto internazionale. Non può essere quindi la nostra un’agricoltura solo biologica o del chilometro zero o di piccole nicchie. Dobbiamo piuttosto pensare ad un modello diversificato e pluralistico, nel quale tutte hanno diritto di coesistere. Allora bene il biologico, comparto che è oggi un segmento importante di mercato, bene le agricolture che valorizzano i prodotti locali, dove la promozione del cibo si intreccia con quella della cultura e del territorio, però noi dobbiamo necessariamente difendere anche il grosso della nostra produzione agroalimentare, che è fatta di tanti prodotti di eccellenza che vanno valorizzati. Lì dove la valorizzazione di un prodotto significa in primo luogo organizzazione della produzione, perché non si può valorizzare un prodotto se la produzione non è disciplinata, né è pensabile tutelare e difendere produzioni non organizzate.
La nostra parola d’ordine è quindi filiera, organizzazione e programmazione di filiera. Per la cooperazione agroalimentare è facile parlare di filiera, ma ciò non implica che sia l’unica strada percorribile: ognuno può mettere in campo la sua ricetta, purché sia una filiera vera e purché si parta da una valorizzazione del prodotto. È inoltre necessario che il nostro paese prosegua il suo impegno in materia di etichettatura e trasparenza della filiera e di riduzione e controllo degli oneri burocratici (non chiediamo più incentivi, dal momento che spesso la loro efficacia è limitata dai costi di un paese che non funziona e che non mette le aziende in condizione di lavorare). C’è poi la questione dell’accesso al credito, che va affrontata con particolare riguardo per le piccole imprese, cui servono strumenti che ne irrobustiscano la dotazione patrimoniale, con più capitale e meno debito.
Occorre infine che il paese continui l’opera iniziata dal ministro Calenda quando era vice ministro con la delega all’internazionalizzazione. L’obiettivo di 50 miliardi di export è a portata di mano, ma occorre essere ancora di più a fianco delle imprese con politiche di valorizzazione dell’offerta e di contrasto alla falsificazione del made in Italy. L’internazionalizzazione deve diventare un impegno per il paese: il “modello Calenda” va ripreso, anche con l’aggiunta di risorse non esterne al settore, attraverso la riqualificazione di fondi mal spesi per supportare azioni di promozione o per riorientare le politiche comunitarie di accompagnamento dei nostri prodotti. È impensabile poter contrastare la globalizzazione - che offre a interi continenti a partire dalla Cina enormi vantaggi competitivi - con deboli e tentennanti politiche economiche europee spesso non governate dalla politica, ma dai “burocrati del palazzo”.
Ecco, ci sarebbe piaciuto in questa campagna elettorale sentir parlare di queste cose, aver profilato una visione di sviluppo del modello agroalimentare, ma prendiamo atto che c’è scarso interesse da parte di molti e che in una parte della rappresentanza agricola c’è spesso una visione confusa e non coerente. Con qualche difficoltà in più, noi continuiamo in ogni modo a fare il nostro lavoro con un obiettivo chiaro: essere tre volte italiani. La nostra proposta è quella di un modello che utilizza prodotto italiano, lavorato e trasformato in Italia, con aziende italiane, che non solo pagano le tasse nel proprio Paese senza delocalizzare, ma costruiscono anche un processo di sostenibilità che guarda al futuro e a un patto con le nuove generazioni.
di Maurizio Gardini
Presidente di Conserve Italia
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