La frutticoltura italiana è un mosaico complesso le cui radici affondano in millenni di storia.
Ciò si traduce in una straordinaria biodiversità e, soprattutto, in quello che è stato un indiscutibile primato tecnico e produttivo, frutto di una forte sinergia tra impresa, ricerca e tecnica, per lungo tempo la chiave del successo per le filiere di mele, drupacee e kiwi, basate su punti di forza importanti nel vivaismo, nel sistema produttivo, nella conservazione e trasformazione.
Anteprima editoriale Terra e Vita 11/2023
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Ma da oltre un decennio si assiste a un declino tecnico che va al di là delle responsabilità degli operatori del settore e che dovrebbe imporre profonde riflessioni politiche. Altri Paesi come Spagna e Nuova Zelanda sono stati capaci di costruire filiere coese, che hanno generato nuovi modelli d’impianto, intensivi e quasi interamente meccanizzati, legate anche a forti innovazioni varietali, per le quali la ricerca ha svolto un ruolo centrale.
L’Italia mantiene una forte variabilità territoriale, anche in termini di qualità d’impresa. Cosa che rende più complicato proporre o promuovere innovazione varietale e tecnologica e più semplice la diffusione di modelli pensati altrove. È evidente, per esempio al Sud, come la perdita del ruolo di motore dell’innovazione degli istituti di ricerca legati al Masaf, sia stata sostituita solo da professionisti o strutture di consulenza private, che se mantengono un’ottima capacità di trasferire innovazione varietale e tecnologica, non possono, spesso, avere quella di produrla.
Considerazione analoga per l’innovazione varietale: deve essere supportata e programmata e il deficit italiano è tanto evidente, quanto grave. Non si tratta di scarsa capacità o di conoscenza, basti pensare a quanto prodotto dalla ricerca italiana sul kiwi sugli agrumi e sulla vite da vino, ma dell’assenza di uno sforzo complessivo del sistema Paese guidato dai ministeri responsabili, con azioni che dovrebbero essere supportate lungo tutta la filiera. Giustamente si è investito sulle produzioni certificate, Dop e Igp in primo luogo. Troppo spesso, però, questo puzzle di prodotti certificati non si compone e non fa quantità utili ai sistemi della distribuzione su scala nazionale o internazionale, rimanendo spesso prigionieri di un’eccessiva polverizzazione dell’offerta.
I frutticoltori sono stati le vittime e non la causa dell’aumento dei prezzi al dettaglio che ha caratterizzato l’inflazione del 2022. Pandemia, guerra, crisi energetica, aumento del costo delle risorse primarie e degli input, oltre al cambiamento climatico e alla crisi idrica che stiamo vivendo, chiamano alla responsabilità collettiva di far fronte e supportare il cambiamento del modello energetico, logistico e dell’uso dell’acqua in campagna.
Il rischio è che cresca ancora la forbice tra il ricavo in azienda e il costo del prodotto al consumo.
Si tratta di immaginare i frutteti del futuro che non possono essere solo quelli interamente coperti da reti e difesi da fattori biotici e abiotici, come fossero incapaci di una pur minima resilienza.
Sostenibilità, digitalizzazione e precisione richiedono investimenti e big data. L’agricoltura di precisione, legata ai processi e alle tecniche rigenerative proprie dell’agroecologia è l’unica strada che porta alla reale sostenibilità dei sistemi agrari. La stessa agricoltura biologica richiede nuove linee di pensiero e di progetto. In definitiva, la complessità del sistema italiano richiede interventi politici, normativi ed economici capaci di ricondurre a valore di identità nazionale quella che è una spiccata identità territoriale, anche ripensando alla missione degli enti di ricerca e sperimentazione in agricoltura e alla successiva diffusione dell’innovazione.
di Paolo Inglese
Università degli Studi di Palermo
e membro del Comitato tecnico scientifico di Edagricole