La tipicità del vino è da sempre un argomento che stimola agguerriti dibattiti. Da una parte troviamo coloro che si ergono a tutela di un prodotto che dovrebbe essere immutabile e costante nei confronti di una richiesta volubile e sempre più varia; dall’altra parte coloro che hanno eletto consumatori e clienti come unici soggetti ai quali i produttori di vino dovrebbero dare ascolto, modificando registri sensoriali e stile, a seconda della moda e dei gusti di chi la fa e di chi la segue. Inoltre, la tecnica e la ricerca enologica proseguono per la loro strada e offrono all’enologo strumenti e conoscenze sempre più performanti per influire sullo stile di un prodotto. Forse non è vero, come taluni affermano, che a partire da uno stesso mosto si possano ottenere infiniti vini diversi, però è certo che oggi, molto più di ieri, possiamo privilegiare alcune strade piuttosto di altre e favorire la sintesi di determinati profumi invece di altri, semplicemente utilizzando uno specifico prodotto, una specifica tecnica, in vigna quanto in cantina.
È grazie a queste tecniche se dagli anni ‘60 ad oggi lo stile e il carattere dei vini si sono radicalmente modificati.
La moda dei bianchi e rossi full bodied
Si è infatti passati da uno stile di vino bianco negli anni ’60 e ’70, molto leggero, bianco carta, dove l’unico pregio consisteva nella sua stabilità fisico-chimica, ma dove risultava difficile se non impossibile riconoscerne varietà o origine geografica, ai vini bianchi degli anni ’80 e ’90, dotati di una gradazione alcolica più elevata, con acidità più contenute, ricchi in corpo, colore e struttura. La differenza di stile è stata ancora più accentuata nei vini rossi dove la volontà di raccogliere uve sempre più mature ed il ricorso sempre più frequente alla concentrazione ci ha consegnato dei vini molto intensi e colorati, marcati dal legno, spesso con residui zuccherini e acidità volatili eccessive, destinate ad aumentare dopo qualche anno di bottiglia in quanto una filtrazione finale troppo stretta era ritenuta di ostacolo all’integrità del prodotto. Erano vini affascinanti ed innovativi che vincevano premi e concorsi, ma che nel corso degli ultimi anni hanno mostrato limiti per la difficoltà ad essere bevuti dal consumatore quotidiano. Il vino di quegli anni doveva essere, per usare un’espressione tanto cara ai produttori d’oltre oceano, “full bodied”, e noi tutti dietro, per cercare di compiacere un mercato nuovo ma in espansione e che ricercava questo stile. Anche in questo caso risultava molto complicato riconoscere in quei vini la tipicità di un territorio o di una varietà.
Disciplinari in evoluzione
Da tutto ciò appare evidente che la nozione di tipicità non è fissa ed immobile nel tempo ma evolve a seconda dei periodi storici, soprattutto in funzione della tipologia di consumatore che si intende affascinare. Il problema semmai si presenta talvolta all’interno delle commissioni di degustazione delle Camere di Commercio, per l’assegnazione di idoneità delle diverse denominazioni di origine, dove la tipicità dovrebbe essere uno dei parametri da considerare per decretare il successo, cioè il passaggio alla commercializzazione. Tuttavia, facendo una breve rassegna dei numerosi disciplinari, sebbene si faccia largo uso della parola tipicità, non se ne comprende appieno il significato in quanto tra le caratteristiche che un vino debba possedere all’atto del consumo troviamo termini quali: odore profumato, intenso, fragrante e sapore morbido, delicato, armonico. Tutti termini in astratto, che non rappresentano di per sé caratteristiche uniche e irriproducibili. Inoltre, i disciplinari di produzione cambiano, si evolvono, spesso vengono aggiunte talune varietà (quasi sempre le stesse) in grado di modificare, anche sostanzialmente, il vino risultante. Ovviamente, non stiamo parlando delle denominazioni di grande prestigio internazionale, dotate di un forte appeal proprio perché rappresentano il risultato di anni di costanza e tradizione di produzione e di disciplinari e che non hanno bisogno di rivisitazioni continue. Mi riferisco ovviamente a vini come il Brunello di Montalcino o ai grandi piemontesi – Barolo e Barbaresco – senza scomodare le grandi denominazioni bordolesi quali Pauillac, Margaux o Saint-Estèphe o di Borgogna quali Pommard e Mercurey per i rossi o Pouilly Fuissé e Chassagne Montrachet per i bianchi, che sono spesso il risultato di monovitigni e quindi risultano più facilmente riconoscibili dalla maggior parte dei consumatori più esperti.
Vitigno al riparo da sentori estranei
Forse oggi, per la prima volta, a dispetto dei cambiamenti degli ultimi 30-40 anni, ci sembra di percepire una giusta tendenza ed una chiara volontà da parte dei produttori di presentare vini rispettando maggiormente il profilo varietale dei vitigni impiegati. Forse la tipicità deve consistere proprio nella ricerca di mantenere inalterato il patrimonio di aromi e di precursori d’aromi presenti in un determinato vitigno, nel tempo e nello spazio, evitando di mascherarli o coprirli con sentori “estranei”. Probabilmente, la maggiore garanzia che possiamo offrire al consumatore di oggi è quella di preservare e mantenere pressoché inalterato il patrimonio aromatico di ogni singola varietà, così che il consumatore possa percepire ciò che si attende al momento della scelta di una vino rispetto ad un altro. A tale proposito, possiamo tracciare un profilo molto generico di alcuni descrittori tipici per ogni singola varietà, per quanto sappiamo che esistono interferenze e sovrapposizioni aromatiche tra le diverse tipologie di uva.
Cominciando da qualche varietà a bacca bianca, possiamo considerare che lo Chardonnay, una delle varietà di grande diffusione mondiale, viene spesso accolto positivamente dal mercato se si percepiscono sentori di frutta secca quali la noce, nocciola, mandorla, castagne, burro, lattico. Sappiamo che questo è essenzialmente dovuto a fermentazioni malolattiche che si protraggono nel tempo, in presenza di una buona dose di fecce in sospensione. Su un registro totalmente differente, troviamo tutte le varietà appartenenti alla cosiddetta famiglia dei Moscati (Moscato bianco, Zibibbo, Traminer, Vermentino, Viognier, Malvasie aromatiche, ecc); queste devono necessariamente possedere sentori di agrumi, fiori di arancio e limone in particolare, ma anche note più mentolate, di rosa e di salvia.
L’aroma si conserva con il freddo
Oggi la tecnologia della criomacerazione pellicolare, in presenza di ghiaccio secco ed enzimi beta glucosidasi, cosiddetti a rilascio di aroma, ci può dare un aiuto in questo senso. Tutte le varietà ricche in composti tiolici di tipo volatile (tra tutte il Sauvignon blanc, ma anche alcune recenti selezioni clonali di Grechetto e Pecorino) devono necessariamente offrire al consumatore sentori di pompelmo rosa, frutto della passione, foglie di pomodoro, bosso. Si tratta come sappiamo di aromi dotati di una grande reattività nei confronti di ossigeno e rame, da evitare quindi il primo in cantina ed il secondo in cantina come in vigna. Anche in questo caso la criomacerazione pellicolare, in presenza di ghiaccio secco e la scelta di un lievito opportunamente selezionato per la rivelazione del precursore di aroma, oltre che la giusta collocazione in vigna di una varietà così sensibile e fragile possono contribuire al successo commerciale di un’azienda vitivinicola.
Quando lievito (e pulizia) fanno tutto
Infine, per le varietà essenzialmente Neutre, che per motivi lontani dalla più stretta esigenza enologica, continuano ad essere impiantati, con nomi diversi, su tutto il territorio nazionale, qui la tecnica di cantina prevale in qualche modo sugli aspetti meramente viticoli poiché per quanto si possano vinificare uve sane e mature, il massimo che si possa ottenere è essenzialmente legato a molecole quali alcoli ed esteri superiori (sentori di rosa e banana su tutti). Essendo, in particolar modo gli esteri, legati alla cinetica della fermentazione alcolica, sappiamo che una buona pulizia dei mosti, inferiore ai 150 ntu, ed una bassa temperatura di fermentazione possono contribuire ad una maggiore sintesi di questi composti.
L’ingrediente “sole” da dosare sui rossi
Per quanto riguarda le varietà a bacca rossa, oggi, molto più di ieri, conosciamo alcune molecole responsabili dei sentori legati a determinate uve e quindi precise tecniche viticole e di cantina ci possono aiutare nell’ottenere o al contrario evitare determinati profumi. Il Merlot ad esempio è riconosciuto dai più per avere, da giovane, un sentore di cassis, essenzialmente dovuto a quei tioli volatili che abbiamo già evidenziato nel caso del Sauvignon blanc e quindi anche per questa varietà vale quanto già espressamente sottolineato in precedenza, in particolar modo per quello che riguarda la sensibilità all’ossigeno. Diverso è il caso dei Cabernet sauvignon, Cabernet franc, e soprattutto il Carménère dove il registro sensoriale si sposta su note più vegetali, riconducibili al famigerato peperone verde o se vogliamo alle betametilidrossipirazine. Il fatto che tali molecole siano sensibili alla luce diretta, ci consente di scegliere se presentare vini dalle note sensoriali più vegetali, mantenendo i grappoli più protetti dalle foglie, con rese per ettaro più elevate ed in situazione di una buona disponibilità idrica e di fertilità o al contrario privilegiare l’aspetto secondario, più fruttato del Cabernet, lavorando quindi con grappoli maggiormente esposti al sole, in frangenti di minore disponibilità idrica ed in generale su situazioni di minore vigoria. La scelta ovviamente va fatta non tanto seguendo un gusto personale ma indirizzata in funzione del mercato che si intende affrontare in quanto in alcuni di essi si privilegia l’uno o l’altro profilo sensoriale.
Vigneti “metalizzati” per il Syrah
Il Syrah è una varietà che a differenza di molte altre presenta precursori glicosilati della vaniglia, oltre che fenoli volatili non di origine microbica e quindi già nel mese di novembre, al temine delle fermentazioni è possibile percepire note legate a spezie quali il pepe e i chiodi di garofano, che nella maggior parte dei casi associamo a vini che hanno avuto un periodo di affinamento in legno. Sempre legate al Syrah, troviamo altre note più fresche e fruttate, che si caratterizzano attraverso descrittori quali violetta e amarena, dovuti essenzialmente alla foto ossidazione del carotene. Questo ha spinto alcuni ricercatori e qualche produttore a stendere sottili strati di alluminio sopra il terreno per cercare di favorire queste reazioni e sovraespimere così questo carattere fruttato.
Per concludere, oggi la tecnica Enologica mette a disposizione degli Enologi numerose possibilità, rispetto ad un recente passato.
Il glutatione nel futuro
La concentrazione (intesa come osmosi inversa e sotto vuoto), la microssigenazione, l’uso del caldo e del freddo nei diversi momenti della vinificazione e dell’affinamento, la gestione delle fecce fini e del legno, l’ausilio di prodotti e coadiuvanti quali nuovi lieviti e batteri selezionati, sempre più mirati e performanti, le tipologie dei tannini e degli enzimi si sono ampliate, fornendo possibilità sempre più ampie ai produttori; per il futuro, sicuramente il glutatione ed altri antiossidanti, oltre che lo studio dei meccanismi di sintesi delle molecole responsabili dell’invecchiamento precoce dei vini bianchi e rossi secchi ci consentiranno di produrre vini ancora più profumati e destinati a resistere maggiormente nel tempo.
L’enologo dovrà a questo punto dare un senso a questo enorme assortimento di tecniche e prodotti di cui dispone e decidere il giusto percorso da intraprendere, con la consapevolezza di chi conosce le conseguenze delle proprie scelte e sempre in virtù di quell’obiettivo finale che è poi l’ottenimento del miglior prodotto possibile in quella determinata circostanza. Per fare tutto questo, occorre comprendere fino in fondo ciò che è possibile fare in uno specifico areale, con una determinata varietà, così che il risultato finale non sia mai una sorpresa, ma l’effettiva risultanza di un progetto che nasce con l’impianto del vigneto e che termina con il piacere di un sorso di vino.