Nonostante gli effetti devastanti dell’infezione di Xylella fastidiosa sul patrimonio olivicolo della Puglia, dove si concentra quasi il 50% della produzione italiana di olio, è in questa regione che si conta il maggior numero di impianti superintensivi di olivo.
Alle iniziali due varietà spagnole (Arbosana e Arbequina) se ne sono aggiunte altre anche italiane (Nociara, Fs-17, Lecciana, ecc.) e la superficie investita è in costante crescita con circa 5.000 ettari impiantati nell’ultimo decennio. Ma anche in altre regioni questonuovo tipo di impianto si sta diffondendo per la veloce entrata in produzione, la spinta meccanizzazione e l’interessante redditività.
Articolo pubblicato sulla rubrica L’occhio del Fitopatologo di Terra e Vita
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La difesa per l’alta densità
Un impianto superintensivo ha sesti che possono far arrivare a una densità di circa 2.000 piante a ettaro e la gestione agronomica che richiede è decisamente diversa rispetto a un oliveto tradizionale, tanto da poterlo considerare a tutti gli effetti un impianto frutticolo.
Anche la gestione fitosanitaria è decisamente diversa da quella di un oliveto tradizionale e alcune avversità ben note ma poco dannose in impianti “normali” possono diventare un problema quando le piante sono così fitte e gli input produttivi elevati.
È il caso, ad esempio, dei comuni scolitidi (Phloeotribus scarabeoides, Hylesinus oleiperda) che, se attaccano il tronco e le branche principali delle giovani piante, non possono essere controllati con la semplice asportazione delle parti infette. O, ancora, dell’oziorrinco (Otiorrhynchus cribricollis) a cui è impedita con successo la risalita del tronco con barriere meccaniche su piante isolate, mentre in un superintensivo le possibilità di accesso alla chioma si moltiplicano tra pali tutori, tiranti e tubi di irrigazione.
L’eriofide Aceria oleae
Recentemente, un acaro la cui presenza sull’olivo in Puglia era già stata segnalata ma che non aveva importanza economica, è stato associato a danni di una certa consistenza in nuovi impianti, tanto da richiedere interventi attivi di controllo. Si tratta dell’eriofide Aceria oleae, diffuso in tutto il bacino mediterraneo e giunto anche in Asia e Sud America, probabilmente attraverso il trasporto di piante infestate.
Aceria oleae, come altre specie più note dello stesso genere, induce deformazioni a carico dei germogli, delle foglie e anche delle drupe. Il danno sui frutti è più rilevante per le varietà da mensa. La presenza dell’eriofide può essere accertata con l’ausilio di uno stereoscopio, osservando la pagina inferiore delle foglie deformate sulle quali, con un buon ingrandimento, sono visibili gli adulti della specie con il tipico corpo piriforme di colore rosato.
Come segnalato dal gruppo di lavoro del professor Enrico De Lillo, dell’Università degli studi di Bari, la crescente diffusione dell’eriofide negli oliveti pugliesi potrebbe dipendere da un potenziale vantaggio a suo carico dovuto alle modalità di gestione agronomica e fitosanitaria attualmente adottata.
I consistenti apporti idrici e nutrizionali negli oliveti superintensivi potrebbero indirettamente favorire Aceria oleae e accentuare i danni causati dall’eriofide. Anche i trattamenti fitosanitari più frequenti potrebbero deprimere gli antagonisti naturali dell’eriofide con il conseguente aumento della sua popolazione.
Se la comparsa dei sintomi è consistente e diffusa nell’oliveto, accertata la presenza di A. oleae si potrà intervenire con prodotti biologici come l’olio bianco, lo zolfo, caolino o zeolite che deprimono la vitalità dell’eriofide senza danneggiare eccessivamente i suoi predatori e parassiti.
Articolo pubblicato sulla rubrica L’occhio del Fitopatologo di Terra e Vita