Si infiamma il dibattito sull'euro coinvolto nelle violente contrapposizioni della campagna elettorale per le europee.
L'aggravarsi della crisi suscita un forte sentimento anti europeista e anti euro. In molti paesi non è una novità, lo è nel nostro paese, da sempre fortemente europeista e che ora scopre di essere (forse) di sentimenti opposti. Ma siamo sicuri che, ancora una volta, non ci guidi solo l'emotività?
Dal dopoguerra
L'euro è il punto di arrivo di un processo che si era avviato sin dal dopoguerra, con le nascenti istituzioni comunitarie. Il loro sviluppo conduceva ad avere bisogno di uno strumento monetario per i complessi calcoli interni e per facilitare gli scambi in rapida espansione. All'inizio questo strumento non ha nemmeno un nome, è l'”unità di conto europea”, il suo valore, in un'epoca di cambi fissi, corrisponde esattamente a quello del dollaro e cioè a 0,888667 grammi di oro, in lire 625.
Ma ben presto saltano i meccanismi di cambio fissi fra le monete, mentre la Cee ha bisogno di uno strumento monetario più evoluto e adeguato ad affrontare le numerose tempeste monetarie che durano sino agli anni '90. Cambia l'unità di conto che diventa ECU e poi, in ultimo, euro. Ma cambia soprattutto la sua natura, che mira ad essere quella di una moneta con dignità internazionale e strumento dell'integrazione europea nell'Unione Economica e Monetaria. L'euro, a differenza dell'ECU di cui assume il valore iniziale, ha la caratteristica di assumere con le monete nazionali che aderiscono “tassi di cambio fissi e irrevocabili”. Dunque nasce per essere la vera moneta di tutta l'Unione Europea, un'ambizione rilevante, ma difficile da soddisfare.
La percezione quotidiana
Nel 1999 l'euro inizia a circolare nelle sole transazioni finanziarie e nel 2002 anche nella circolazione monetaria. Si fa spazio la convinzione che il passaggio all'euro ci accrediti fra i grandi della terra. Ben presto, tuttavia, la sensazione di estraneità di banconote così impersonali inizia a diffondersi insieme alle prime difficoltà pratiche. Il cambio attuato in un tempo troppo ristretto nuoce all'assuefazione alla nuova moneta. Favorisce senza dubbio non solo l'arrotondamento insidioso alle 2000 lire, ma quello molto più dannoso del cambio 1 euro=1000 lire, attuato di fatto dalle piccole imprese che forniscono servizi insieme a prodotti e hanno colto per prime questa irresistibile occasione. È un errore ridurre il periodo di affiancamento dei prezzi in lire e in € come aver trascurato che eravamo abituati ad usare banconote già a 1000 lire e ad assegnare un valore trascurabile alle monete, mentre con l'euro il valore di queste ultime arriva sino a 2 €, poco meno di 4000 lire.
Tutto ciò si traduce in un'iniziale perdita di potere d'acquisto della nuova valuta che dal lato dei redditi si converte al tasso di cambio nominale, ma nei fatti proprio nei primi 6 mesi perde di valore. La scala di valori nuova, ma al suo interno omogenea, crea lo stesso effetto che si incontra quando ci si reca all'estero e si trovano i prezzi espressi in un'altra moneta. Così, ad esempio, diviene in breve “normale” che anche gli ortofrutticoli meno cari passino rapidamente al dettaglio sopra all'€/kg. Da queste constatazioni e dal ricordo dei prezzi in lire nasce molto del malcontento attuale.
Svalutazioni competitive addio
L'euro comporta impatti macroeconomici più importanti. L'incremento dell'inflazione da prezzi che si registra nei primi mesi non viene compensato dalla sopravvenuta stabilizzazione di una parte dei costi, in particolare per i prodotti importati .
Un secondo aspetto, oggi molto sottolineato è l'”ingessatura” di un cambio virtuale fisso fra le ex monete nazionali e fra queste e l'euro avvertito dai paesi deboli. L'economia italiana era da tempo abituata a recuperi di competitività grazie a periodiche svalutazioni “competitive” della lira che consentivano di incrementare temporaneamente le esportazioni migliorando i saldi degli scambi commerciali. Ma il meccanismo non è più replicabile perché il valore dell'euro è indipendente dall'economia nazionale. L'incremento delle singole voci di costo si trasferisce immediatamente sul costo totale unitario. La moneta stabile mette in luce i limiti del sistema italiano.
Fra i costi un ruolo non minore è esercitato da quelli fiscali e dell'energia, oltre che da quelli del lavoro il cui costo per unità di prodotto sale più che negli altri paesi. Gli scambi interni all'area sono regolati in euro e quindi non incidono sulla bilancia dei pagamenti, ma la dinamica della competitività interna riduce le esportazioni verso l'area euro.
Fra gli aspetti positivi si collocano l'alleggerimento del deficit della bilancia dei pagamenti, la stabilità dei prezzi interni con il calo dei tassi di interesse (fig. 1) legato al minore rischio rispetto alla lira, un fatto di cui il nostro paese non ha beneficiato quanto avrebbe potuto. Dall'entrata in vigore dell'euro si stabilizzano anche i tassi di cambio con i paesi terzi. Analogamente si è avuto il parallelo calo dell'inflazione dovuto alla nuova moneta in parte ridotto, però, dal recupero dei margini operato sui prezzi interni.
Si semplificano le transazioni in valuta e cala il rischio di cambio mentre diventa minore il costo delle materie prime importate dal mercato mondiale.
Il problema all'origine del rifiuto attuale, dunque, non è l'euro, ma il cronico rinvio di interventi correttivi strutturali di politica economica e fiscale da parte del paese.
L'Italia di fronte al dilemma
Il bilancio dello Stato, da alcuni anni, presenta un saldo attivo al netto degli interessi, ma il costo dell'indebitamento è tale da far proseguire l'incremento del deficit. Ciò avverrà finché l'aumento della spesa per interessi supera l'attivo del saldo primario. La crescita del prelievo fiscale non produce risultati se non corrisponde almeno a quella del Pil, ma questo è in calo.
I vincoli connessi alla gestione dell'euro si scontrano con il sistema economico e sociale italiano troppo rigido e bloccato su alcuni punti come l'eccesso di fiscalità, il costo unitario del lavoro, la produttività della pubblica amministrazione, i costi burocratici, i costi energetici, gli eccessivi vincoli normativi.
Abbandonare l'euro e l'Europa?
Il dibattito che si è aperto in tutta Europa e anche in Italia tende a ridurre i termini della questione all'alternativa fra permanenza nell'euro o uscita, ma la questione è molto più complessa. Il suo abbandono non elimina gli squilibri nazionali come per l'Italia il deficit eccessivo (fig. 2) o la perdita di produttività del lavoro che dipendono dalle politiche seguite.
Non dimentichiamo, poi, che il paese sarebbe comunque sottoposto alle politiche europee dell'UEM come lo sono i paesi che hanno scelto l'opting out e dunque rimarrebbero molti vincoli di politica economica.
Un altro tema è il tasso di cambio Lira/euro dopo l'eventuale abbandono. Al momento del distacco la Lira varrà esattamente come l'euro, ma in seguito si prevede una svalutazione di qualche punto percentuale. I favorevoli ritengono che ciò avrebbe l'effetto positivo delle vecchie svalutazioni competitive. Ma non è semplice e i tempi non sono brevi. Le monete dell'UE non aderenti all'euro non godono di una fluttuazione libera, ma sono collegate ad esso all'interno di una banda di fluttuazione. La Lira entrerebbe quindi in una specie di euro “non dichiarato”. A seguito della prevedibile, e secondo alcuni desiderabile, svalutazione si avrebbe un calo del potere d'acquisto di salari, stipendi, pensioni ed anche dei risparmi denominati in Lire.
Al contrario il nostro ingente debito pubblico rimarrebbe denominato in euro, tranne per quelle parti di esso successivamente rinnovate. Ciò significa che lo stock di debito da saldare in Lire svalutate diviene più elevato e che altrettanto accadrebbe per gli interessi da corrispondere, mentre i tassi probabilmente salirebbero a causa del maggiore rischio. Crescerebbe inoltre il rischio di cambio. L'aumento dei tassi di interesse avrebbe conseguenze negative sui debiti e sui mutui. Infine, elemento non trascurabile per l'Italia, aumenterebbe il costo delle materie prime importate che non sarebbero più acquistate in euro. Al contrario la svalutazione giocherebbe a favore di un recupero di competitività e quindi favorirebbe le esportazioni stimolando quella parte del sistema economico che opera sui mercati esteri, compresi quelli dei paesi comunitari. Poiché la quota del sistema economico costituita dalle pubbliche amministrazioni e dalle attività che non esportano è preponderante, le potenziali svalutazioni competitive non avrebbero vantaggi sensibili, mentre non eserciterebbero nessuno stimolo a ridurre le rigidità del sistema paese agendo come palliativi. Infine, il nostro contributo al bilancio comunitario, calcolato sulla base del Pil e del gettito Iva, non dovrebbe subire mutamenti rispetto ad oggi.
Il caso del latte
In agricoltura il passaggio all'euro ha portato alla stabilizzazione dei prezzi e dei mercati all'interno dell'UE. In precedenza, l'esistenza dei differenziali di cambio fu prima corretta dagli Importi compensativi e poi dal “correttivo del correttivo” le valute verdi, perché aveva provocato distorsioni notevoli del mercato. Consideriamo, ad esempio (v. fig. 3) il prezzo del latte fino all'avvio dell'euro. Si vede che il prezzo scende in Italia, paese deficitario, e sale in quelli eccedentari ma a moneta più forte! La stessa contraddizione che oggi si attribuisce all'euro.
Quanto accaduto in agricoltura può dare un'indicazione al resto dell'economia. La stabilizzazione e l'elevato grado di integrazione dei mercati agricoli sono stati la premessa per l'evoluzione dell'agricoltura europea, anche grazie alla riforma della Pac del 1993. Disporre dell'euro in un sistema fortemente integrato non ha manifestato gli inconvenienti che si sono resi evidenti negli altri settori dell'economia dove l'integrazione era minore.
L'andamento degli scambi intra UE è stato positivo ed è aumentata l'apertura del sistema italiano sia in generale sia per l'agricoltura (fig. 4). La bilancia agroalimentare italiana è migliorata (fig. 5), grazie all'incremento delle esportazioni alimentari, specie delle bevande, mentre gli altri comparti si sono mantenuti sui livelli precedenti.
Un'eventuale uscita dall'euro seguita dalla svalutazione della Lira comporterebbe in agricoltura problemi sul versante dei costi delle importazioni sia di prodotti agricoli e alimentari di cui siamo deficitari sia delle materie prime che impieghiamo per produrre gli alimentari di maggiore pregio, come quelli di origine animale a causa del forte deficit del comparto agro-zootecnico. D'altro canto non sarebbe possibile incrementare le esportazioni quantitativamente a causa dei limiti produttivi dell'agricoltura italiana. Un incremento del valore delle esportazioni potrebbe divenire sostenibile solo se accompagnato da quello delle importazioni per aumentare l'offerta interna ai livelli della domanda, ma il nuovo cambio svalutato le penalizzerebbe.
E ora?
L'ingresso nell'euro non significava avere terminato gli sforzi e i sacrifici. Le condizioni di favore iniziali non potevano esaurire il rigore che doveva proseguire nel tempo. Cade anche l'illusione che la moneta unica avrebbe significato l'assunzione comune dei debiti da parte di tutti i paesi aderenti. Non poteva accadere né con la soluzione che si è scelta né con nessuna altra soluzione per ovvi motivi. E lo stesso vale per i tanto richiesti eurobond, che sono solo la versione finanziaria della stessa illusione. La crisi, poi, ha reso tutto più difficile andando a scoprire i punti più critici del sistema europeo, ma proprio la sua eccezionalità, con l'aumento dell'indebitamento di tutti gli stati, può far scattare la regola prevista nel fiscal compact per l'attenuazione del rigore.
Quattro questioni irrisolte
Quella della moneta comune è una storia straordinaria, ma colma di questioni irrisolte che oggi si ripresentano. In particolare ci sembra che siano quattro quelle principali che ci arrivano dal passato, per non dire della quinta che assume contorni sempre più preoccupanti.
La prima è il conflitto fra sovranità nazionale e poteri sovranazionali della Comunità. Una questione di enorme complessità e delicatezza che sconta il fatto che gli Organismi comunitari in realtà hanno poteri sovranazionali ma non una base democratica diretta nei diversi paesi. La creazione istituzionale di un inedito intreccio dei tradizionali poteri e il peso assunto dalle figure grigie dei funzionari e degli stessi rappresentanti in Europa dei singoli paesi non giovano a risolvere un conflitto che forse non si vuole superare. La gestione della moneta è uno di questi poteri sovrani fra i più difficili da cedere.
La seconda è l'alternativa, individuata in passato da De Gaulle, fra l'allargamento della Comunità e l'approfondimento dei rapporti fra i suoi componenti. La crescita del numero comporta allentamento dei vincoli e rallentamento dei processi gestionali. L'approfondimento dei legami interni diventa sempre più difficile mentre la situazione della moneta richiede processi decisionali rapidi per essere efficaci e un numero più ridotto di componenti.
La terza è la sindrome del salto in avanti o “del cuore oltre l'ostacolo”. Quando le difficoltà a progredire sembrano insuperabili l'Ue decide di superare di slancio i punti di contrasto confidando che poi tutto si accomoderà. Tre esempi per chiarire: a) il passaggio alla fase di mercato unico in agricoltura nel '68; b) la nascita del Mercato Unico Europeo nel '92; c) la nascita dell'euro senza una completa Unione Economica e Monetaria. Ma questa operazione si è rivelata più difficile del previsto.
La quarta, tutta italiana, riguarda il nostro atteggiamento nei confronti dell'UE. Sin dalla fase preparatoria delle Comunità fummo accondiscendenti su tutto pur di essere accettati. Anche in seguito ci comportammo allo stesso modo per il passaggio al Mercato Unico, per l'UE e per l'euro. Sentirsi sempre nella condizione di chiedere benevolenza è sbagliato e alimenta l'irresponsabilità di un atteggiamento strumentale che attribuisce agli altri tutto ciò che non siamo in grado di fare da soli a causa della rigidità del sistema italiano.
Infine l'ultima e la più pericolosa per il futuro è la nascita all'interno dell'Ue di due sottogruppi di paesi a causa dell'adesione o meno all'euro e quindi la formazione di sedi decisionali duplicate, ad esempio per le politiche economiche. Questa non è l'Europa a due velocità come spesso si dice anche per l'uscita dall'euro, ma una costruzione le cui ambiguità vanno risolte prima che si trasformino in conflitti o nella paralisi dell'UE.
Sintesi dell'autore dalla relazione “L'euro e le problematiche agricole” tenuta all'Accademia dei Georgofili il 5/5/2014.
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