Il crollo dei prezzi di mercato del riso è lo specchio della crisi della risicoltura italiana e c’è da chiedersi se la nostra offerta frammentata di prodotto possa ancora essere considerata una ricchezza o se rappresenti solo una complicazione.
Quello che il comparto risicolo dovrebbe fare in questo momento è cercare di trasformare i problemi in opportunità, purchè si consolidi il concetto di filiera e si cominci veramente a lavorare tutti assieme con un obbiettivo comune, che si raggiunge solo se si riesce a incrementare la competività delle aziende risicole.
È stato questo il leitmotiv del convegno dal titolo un po’ allarmante “Risicoltura sotto scacco” che ha inaugurato la 41a edizione della Fiera in Campo di Vercelli.
«La risicoltura italiana, ormai attestata fra i 200 e i 230mila ettari, rappresenta lo 0,2% di quella mondiale e il 55% di quella europea – ha ricordato Dario Casati, esperto di economia agraria ed ex docente dell’Università di Milano in occasione dell’incontro di Verrcelli -. Siamo solo
al 31° posto fra i produttori di riso ma ci attestiamo al 6° posto nelle esportazioni».
«La risicoltura è un settore vivace ma caratterizzato da un’eccessiva episodicità nelle scelte. Manca infatti a mio avviso un quadro strategico e condiviso nelle decisioni. Il riso – precisa Casati – è un prodotto glabale che non ci permette di confrontarci con le altre nazioni
produttrici in merito ai volumi, ma nel nostro caso la valorizzazione e la diversificazione del prodotto può fare la differenza. Il mercato interno rappresenta il primo terreno di sfida e su questo dobbiamo porre crescente attenzione con azioni che coinvolgano tutti gli attori della filiera. Dobbiamo essere tutti coesi e smettere di litigare se vogliamo ottenere dei buoni risultati».
«E anche la ricerca deve fare la sua parte – ha ricordato Casati – guardando avanti per individuare soluzioni non solo per risolvere problemi quando questi sono sopraggiunti, ma soprattutto proprio per evitare che i problemi si vengano a creare».
Valore aggiunto e tipicità
La nostra risicoltura, che rispetto a quella mondiale può essere considerata di nucchia, deve quindi basarsi sul valore aggiunto e sulla tipicità. D’altra parte su ogni 250 ettari di riso coltivati a livello mondiale, solo 1 è italiano, e su quello dobbiamo lavorare bene!
In Italia non possiamo fare lobby sulle quantità, come spiega Alessandro Arioli, agronomo esperto in innovazione tecnologica a livello internazionale, ma possiamo, ma dobbiamo farla, sulle caratteristiche d’eccellenza, cercando di fare in modo di bloccare l’importazione (a dazio zero!) di prodotto proveniente dal sud-est asiatico trattato con prodotti decisamente pericolosi per la salute umana.
«Mentre in Europa si stanno elimimando tutti i fitormaci pericolosi, negli ultimi cinque anni il business dei fitofarmaci è comunque aumentato del 25% in quantità (40% in valore) – avverte Arioli –. Nel Sud Est asiatico e in Oceania vengono utilizzati principi attivi vietati da anni in Italia e in Europa, come gli esteri fosfori o addirittura il kerosene, prodotti classificati mutageni, teratogeni e cancerogeni. Ricordo di aver visto coi miei occhi bambini seminudi distribuire questi prodotti sui campi utilizzando pompe manuali, una cosa decisamente inaccettabile. È qui, dunque, che dobbiamo fare lobby: questo riso, non dovrebbe assolutamente essere fatto entrare Europa».
Studio sui fitofarmaci pericolosi
Arioli ha condotto uno studio (che pubblicheremo in uno dei prossimi numeri di Terra e Vita), assieme a Carlotta Caresana dell’Ente nazionale risi, per identificare i fitofarmaci impiegati sul riso che regolarmente importiamo da Sud-Est Asiatico. L’indagine evidenzia che solo pochissimi di questi sono attualmente ammessi dalla normativa europea. «Nelle analisi condotte a campione sul riso importato – spiega Arioli – la presenza di pericolosi fitofarmaci può anche non emergere, ma il loro utilizzo già di per sè dovrebbe vietare l’introduzione in Europa del riso trattato con questi».
Quindi il grido di battaglia è: puntiamo sul prodotto interno, non per una questione di autarchia ma per sostenere i nostri produttori e garantire la nostra salute.
Questo è possibile però solo se si riducono i costi e gli input energetici. Le tecnologie non mancano e l’agricoltore, quando si avvicina a queste, non deve più pensare a «quanto gli vengano a costare» ma proiettare il suo pensiero su «quanto gli possono rendere».
Ovviamente, in quest’ottica, non si può non pensare anche a un’adeguato sostegno del settore nell’ambito del “Piano del Governo per il riso”.