Il difficile equilibrio fra costi industriali e ricavi agricoli. E forniture continue

FILIERA GRANO DURO. Se vogliamo pasta fatta in Italia meglio giocare tutti in squadra

duro
Il settore del grano duro è passato negli ultimi anni dalla profonda depressione del 2004-2007, al disneyano “Klondike” (o corsa all’oro) del 2007-08 fino all’odierna situazione di stallo iniziata già alla fine del 2008: ma come evolverà nel breve termine? Quali sono i vincoli da superare e le problematiche da affrontare dei prossimi anni?

Il settore del grano duro è passato negli ultimi anni dalla profonda depressione del 2004-2007, al disneyano “Klondike” (o corsa all’oro) del 2007-08 fino all’odierna situazione di stallo iniziata già alla fine del 2008: ma come evolverà nel breve termine? Quali sono i vincoli da superare e le problematiche da affrontare dei prossimi anni?

SCENARIO MONDIALE

In Europa ed in Italia, nonostante prezzi estremamente volatili, la produzione è sopravvissuta nei momenti più cupi della metà degli anni 2000 grazie ai contributi comunitari che hanno fatto quadrare il bilancio degli agricoltori.

Sul finire del 2007 è arrivato un vero “tsunami” con quotazioni alle stelle e l’illusione che la tanto criticata globalizzazione avesse portato a un nuovo equilibrio di mercato con un livello di prezzi all’agricoltore che gli permetteva sia di svincolarsi dalla dipendenza dagli aiuti comunitari sia, soprattutto, dalla situazione di costante “questua” di fronte agli utilizzatori finali al fine di vedersi riconosciuti prezzi equi e di non vedersi assottigliare troppo l’assegno da Bruxelles.

Il recentissimo ritorno a quotazioni “mondiali” ai livelli minimi dell’ultimo quinquennio, avrebbe dovuto produrre un segnale forte da parte del mondo agricolo con cali delle superfici investite a duro ben oltre la storica ciclicità, ma come spesso accade in agricoltura, le scelte colturali sono state dettate dall’andamento dei prezzi, ma in gran parte anche dalla “tradizione” e dall’avversione al cambiamento.

Così alla fine, nonostante l’evidente instabilità dei mercati dal 2007 a oggi, ma in presenza di un consumo costante negli ultimi anni (37-39 mio t), sia la produzione che gli scambi si sono confermati a livello mondiale rispettivamente sui 35-40 mio t e 6-8 mio t (fig. 2).

IL DOPPIO VOLTO DELLE QUOTAZIONI

Se a livello italiano e comunitario (dove l’offerta è ampia ma strutturalmente polverizzata) quanto appena detto ben descrive l’accaduto, a livello internazionale lo scenario è più complesso stante la ben nota concentrazione dell’offerta (fig. 3) che, da un lato, impone ai produttori il minor “prezzo mondiale partenza” e, dall’altro, molto scaltramente, pilota le quotazioni “franco arrivo utilizzatore” riuscendo a sfruttare appieno la fragilità del nostro settore a grano duro, sempre più ostaggio di quelle aziende multinazionali il cui numero è da decenni ristretto alle dita di una mano.

In aggiunta l’Europa, ormai da parecchi anni, ha deciso di azzerare le scorte all’intervento, mentre altri paesi come Canada e Usa non ne hanno affatto seguito l’esempio con il risultato che nel 2007/08 chi era “puro importatore” (Europa e Nord Africa, v. fig. 4) e senza scorte ha subito passivamente l’escalation dei prezzi, mentre dall’autunno 2008 chi è “puro esportatore” (gli stessi Usa e Canada) e detentore di gran parte del “granaio mondiale”, dopo aver attivamente cavalcato la speculazione del 2007 continua oggi a pilotare prezzi e mercato in un regime di oligopolio che via via diventa più efficiente e difficile da scalfire.

Pensiamo solo alla fusione tra la canadese Viterra (che gestisce il 40% dei grani del Canada) con l’australiana Abb (Australian barley board) o agli accordi in essere tra le americane Chs Inc (colosso del grano duro Usa) e Cargill con aziende cerealicole “leader” in Messico e Australia.

I CONTI IN TASCA
Delineato lo scenario ove si confrontano le contrapposte entità produttive e commerciali (v. anche box), analizziamo alcune tra le più attuali problematiche del pianeta grano duro: è ancora il cereale “principe”? Si può controllare o gestire al meglio il trend delle produzioni e dei prezzi? Quali sono le prerogative e le priorità del commercio di grano duro nel terzo millennio? Quali sono gli strumenti a supporto delle parti commerciali e i vincoli che dovrebbero essere superati?

Fino a che la pasta si produrrà con semola e continueremo ad apprezzare prodotti come il pane di semola, ma anche i mediterranei “cous-cous” e il “bulgur”, il grano duro sarà sempre la coltura “principe” per il nostro Paese e più in generale per quel bacino del Mediterraneo che ne è da sempre il principale utilizzatore a livello mondiale.

Negli ultimi anni, sia per effetto dell’allargamento dell’Europa (l’abbondanza di cereali ha via via depresso le quotazioni di tutte le categorie sulle nostre piazze) sia per la scelta del disaccoppiamento e la maggiore indipendenza del contributo comunitario rispetto a quanto si produce in campo, i conti in tasca del produttore di grano duro faticano a quadrare e quando si sfiora la perdita economica anche la secolare tradizione di coltivare il “principe” dei cereali lascia il passo ad alcune riflessioni: continuiamo con speranza? Passiamo gradualmente ad altre colture? Smettiamo di produrre e sfruttiamo la condizionalità?

In poche parole, in regime di costi-ricavi risicatissimi, si impone l’analisi economica della convenienza o meno a produrre grano duro in Italia (e nel mondo) e tale analisi non è più un problema solo degli agricoltori, ma anche dell’intero comparto “dal campo alla tavola” se è vero ed è vero, che la globalizzazione e la concentrazione dell’offerta in poche mani (o Paesi) rischia di peggiorare una situazione già al limite e potenzialmente esplosiva fino all’estremo epilogo, che nessuno vuole anche solo immaginare di vedere via via scomparire la pasta “made in Italy” a favore di altre origini: pasta cinese? No grazie!

Si impone quindi il concetto di come garantire un’adeguata produzione in Italia altresì preservando una pluralità produttiva mondiale che non aggravi ulteriormente il deficit del bacino del Mediterraneo a tutto favore commerciale dei colossi mondiali: il Canadian wheat board e le solite (poche) multinazionali.

Guardando alla realtà italiana, le chiavi di volta sono almeno due: la sopravvivenza economica della produzione del grano duro,
che oggi è garantita dall’assegno di Bruxelles, ma nel giro di 2-3 anni dovrà camminare con le proprie gambe, e la collaborazione di filiera che fino a ieri era vissuta come fredda conseguenza dell’essere agricoltore e mugnaio mentre oggi deve spingersi ben oltre verso un rapporto organico e più coeso ove tutti si tenda verso l’obiettivo comune e a nessuno sia permesso di mettere i remi in barca o pensare di continuare a vivere di rendita.

LA STESSA DIREZIONE

Al fine di garantire la sopravvivenza economica, le parti in causa, dall’agricoltore all’industria della pasta passando dai molini, dovranno innanzitutto lavorare a salvaguardia della produzione di grano duro e questo inevitabilmente implica il mantenimento di un livello dei prezzi che soddisfi sia la necessità di “costo” dell’industria che di “ricavo” dell’agricoltore.

Ma come attraversare indenni le sempre più frequenti turbolenze di mercato e le crisi di prezzo e disponibilità? Come il settore e l’industria può meglio tutelarsi nell’ottemperare ai rigidi (e sacrosanti) limiti e controlli sanitari europei? Come metabolizzare il sistema dei dazi all’importazione qualora (e di recente è accaduto) il mercato mondiale crolli senza perdere di competitività a livello industriale?

Le modalità possono essere molteplici, ma di certo il punto di partenza è lo stesso: remare tutti nella stessa direzione e se necessario fare un passo (anche economico e decisionale) indietro in favore del risultato economico “comune”.

Sì, comune poiché è impensabile che il settore continui a reggersi economicamente sui sussidi, e una domanda e offerta che vogliono imporsi difformi tempistiche decisionali, come il “conto deposito” contrapposto alla necessità dell’industria di “continuità di fornitura e certezza di prezzo”.

In poche parole dobbiamo saper sviluppare una vera e propria collaborazione all’interno della filiera grano duro che, partendo dalle reciproche necessità, partorisca un nuovo rapporto fiduciario e commerciale tra domanda e offerta.

Produrre grano duro in Italia spesso è meno economico che in Canada, è vero, ma se poi restassero solo i “monopolisti” canadesi dove andrebbero a finire la garanzia di fornitura,  prezzi e la redditività dell’industria? All’estero alla semina si guarda più alle borse merci del momento che alla “tradizione” o alla “vocazione territoriale” e, sul fronte prezzi, è molto meglio sedersi e definire un “prezzo equo” che salvaguardi sia la produzione (che perderebbe i picchi tipo “klondike” ma eviterebbe anche le perdite tipo 2004) sia l’industria ( sfido chiunque a produrre un budget 2007/08 che a maggio-giugno 2007 prevedesse i 500 euro di febbraio 2008 e il crollo dal maggio-giugno 2008).

SOGGETTI AGGREGATI
All’interno di questo rapporto di collaborazione a salvaguardia del prodotto “made in Italy”, meglio se tra soggetti aggregati (es. industria e organizzazioni di produttori) si dovrà, accanto all’aspetto economico, risolvere altre problematiche oggi sempre più rilevanti come: la gestione degli stock (dalla classificazione qualitativa al ricevimento alla segregazione e conservazione); la certificazione della qualità, della salubrità, dell’ottemperanza alle regole e limiti comunitari; la logistica e la tracciabilità dal campo alla tavola.

Se saremo in grado di fare squadra, calcisticamente “spogliatoio”, assicureremo non solo il futuro del settore grano duro, ma salvaguarderemo anche una parte di noi stessi e delle nostre tradizioni come la pasta fatta in Italia con il 100% di semola di grano duro.

FILIERA GRANO DURO. Se vogliamo pasta fatta in Italia meglio giocare tutti in squadra - Ultima modifica: 2010-04-19T00:00:33+02:00 da Redazione Terra e Vita

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