La lunghezza della nostra vita dipende dalla genetica solamente per il 20% (ma può comunque far piacere avere genitori e nonni molto longevi), mentre per l’80% è determinata da fattori ambientali e alimentari.
Stigmatizzati alcuni comportamenti dannosissimi quali il fumo di sigaretta, l’uso di droghe e l’alcolismo e ricordati gli effetti deleteri dell’inquinamento, possiamo affermare che una lunga aspettativa di vita presuppone un ambiente salubre, una buona attività fisica e una corretta alimentazione.
L’alimentazione
Questa deve comprendere ogni giorno, per ogni kg di peso (riferendoci al peso corporeo ideale e non a quello reale, che potrebbe essere molto superiore o inferiore), 1 g di proteine, 1 g di grassi e 4 g di zuccheri (da aumentare proporzionalmente alla quantità di attività fisica) costituiti da amidi almeno per il 90%, con limitazione degli zuccheri semplici a meno del 10%. Indispensabili poi 20-40 g di fibre, il giusto quantitativo di vitamine e oligoelementi, il corretto apporto idrico.
Esiste un cibo che, da solo, possiamo assumere per 1 anno stando in perfetta salute? Ogni volta che pongo questa domanda alle platee a cui mi capita di parlare nei corsi per assaggiatori professionisti di olio, in convegni e conferenze, ottengo le risposte più disparate: il pane, le uova, la frutta ecc. Solo molto raramente qualcuno indica correttamente il latte materno: nella sua composizione bromatologica, che varia un po’ con il periodo di lattazione e l’aumento dell’età del neonato, questo è sicuramente l’alimento ideale, il “giusto carburante” per il nostro organismo, che lo utilizza completamente senza sprechi e senza produrre “scorie”.
Anche nella nostra vita adulta la composizione complessiva della dieta, che istintivamente tutti siamo portati a variare, dovrebbe contenere i nutrienti in quel giusto rapporto. Sono infatti noti i problemi derivanti da eccesso di alcuni alimenti (o di alimentazione in genere, con la conseguente obesità), o da carenze, come spesso si è verificato in passato in modo anche drammatico a causa di carestie o durante lunghi viaggi permare, con insorgenza di rachitismo, pellagra, scorbuto ecc. Problemi gravi si possono verificare anche per carenza di assunzione di aminoacidi essenziali (come può accadere ai vegetariani assoluti), o di acidi grassi essenziali.
La parola “essenziale” riferita agli aminoacidi o agli acidi grassi indica l’impossibilità di costruirli nel nostro organismo, con la conseguente indispensabilità della loro assunzione con la dieta. Gli aminoacidi essenziali sono contenuti nelle cosiddette “proteine nobili” presenti nella carne, nel latte e derivati, nelle uova e in parte in alcuni legumi. Degli acidi grassi essenziali molti sanno che sono i famosi n (omega) 3 (ac. linolenico) e n6 (ac. linoleico), ma pochi forse conoscono che questa definizione indica semplicemente dopo quale atomo di carbonio della catena che li costituisce (potendo comprenderne 16 o 18 ecc.) è posto il primo dei 2 o più doppi legami, a partire dal gruppo metilico, che fanno definire “insaturo” l’acido grasso che li ha.
Gli acidi grassi
In genere il legame tra gli atomi di carbonio degli acidi grassi è singolo e forte (possiamo immaginare l’acido grasso come una collana con le perle tenute assieme da un unico cordoncino molto robusto): quando tutti i legami sono singoli e forti, l’acido grasso è definito “saturo” e, a temperatura ambiente, tende a essere solido. Quando uno solo dei legami è doppio parliamo di acido grasso monoinsaturo (l’acido oleico è il maggior rappresentante di questa categoria). Gli essenziali, o polinsaturi, posseggono 2 o più doppi legami. Questi sono legami deboli (immaginiamoli come una collana in cui 2 o più perle siano tenute assieme da due filimolto deboli) e costituiscono il sito in cui più facilmente può legarsi l’ossigeno, con conseguente ossidazione che, aumentando nella quantità, arriva a determinare nei grassi l’irrancidimento.
Proprio per evitare l’irrancidimento alcune industrie alimentari legano preventivamente un atomo di idrogeno in quei siti ove si legherebbe l’ossigeno, ottenendo l’acido grasso idrogenato. L’acido grasso polinsaturo così saturato non tende più a diventare rancido, con beneficio per la conservazione, ma il nostro organismo, che non lo riconosce poiché non l’ha mai incontrato nei milioni di anni precedenti, oltre a metabolizzarlo in maniera poco corretta lo utilizza al pari dei normali polinsaturi quale costituente delle membrane cellulari, con il risultato di arrivare ad alterarne anche gravemente la funzione. Noi mangiamo spesso acidi grassi idrogenati e li facciamo mangiare ai nostri figli, ad esempio in molte merendine preconfezionate.
I trigliceridi
Nel nostro organismo i depositi di grassi sono costituiti per la maggior parte da trigliceridi (il trigliceride è composto da una molecola di glicerina – alcool a 3 atomi di carbonio – che lega 3 molecole di acidi grassi) contenenti per il 75% circa ac. grassi monoinsaturi (ac. oleico e simili), per il 13% circa ac. grassi saturi (palmitico, stearico ecc.), per il restante 12% circa polinsaturi (linolenico, linoleico ecc.). Nel latte materno il rapporto tra saturi e polinsaturi è quasi 1/1 e il rapporto tra n3 ed n6 è circa 1/10.
Questi sono approssimativamente i numeri percentuali espressi dalla composizione lipidica di un buon olio extravergine di oliva: nessun altro olio vegetale gli si avvicina. L’olio di palma, molto usato, ad esempio, per la frittura delle patatine, è costituito per oltre il 55% da ac. grassi saturi (l’ac. palmitico prende il nome proprio dalla palma), quello di cocco può arrivare ad averne addirittura quasi il 100%.
A ragion veduta temiamo molto i danni provocati dall’eccessiva assunzione di acidi grassi saturi, consapevoli che questi possono portare facilmente all’aterosclerosi, all’infarto del miocardio e ad aumentare la tendenza all’obesità. Di conseguenza siamo attenti (anche eccessivamente a volte) a togliere il grasso dal prosciutto, o dalla carne, ma facciamo mangiare ai nostri figli intere confezioni di patatine.
Il mais, il girasole e la soia producono oli a elevato contenuto di polinsaturi (anche fino a oltre il 65%). Molto spesso, soprattutto in spot pubblicitari televisivi, veniamo indotti a credere che il consumo costante e abbondante di oli di semi ad alto contenuto di polinsaturi possa aiutare il cuore, preservandolo da malattie coronariche. Un eccessivo consumo di polinsaturi potrebbe invece costituire un problema per il nostro organismo, la cui scarsa capacità metabolica nei loro confronti potrebbe condurre alla formazione di perossidi: questi sono tra i peggiori nemici delle nostre cellule, responsabili dell’invecchiamento e anche della possibile facilitazione di insorgenza dimalattie tumorali.
Solo i cis
Il nostro organismo riesce ad assorbire facilmente e utilizzare vantaggiosamente i polinsaturi cis presenti in natura (ad esempio nel pesce azzurro o nell’olio extravergine di oliva) mentre assorbe lentamente e utilizza malissimo i polinsaturi trans molto presenti negli oli di semi a seguito dei trattamenti chimici e termici subiti per la loro estrazione: questo può aumentare ulteriormente i problemi derivanti dal loro consumo, poiché inducono anche l’aumento delle lipoproteine ldl, quelle cattive che aumentano il rischio di aterosclerosi e infarto.
Queste notizie in genere non arrivano al grande pubblico, rappresentando un esempio di come certa pubblicità metta in grande evidenza benefici molto teorici e possibili solamente in ambiti ristretti, evitando di prendere in considerazione gli svantaggi che potrebbero essere ben maggiori.
Queste possono essere già ragioni sufficienti per preferire il consumo di olio di oliva extravergine a quello di qualunque altro grasso vegetale.
Poco diffuso
Del totale dei grassi vegetali consumati nel mondo per l’alimentazione umana, l’olio da olive costituisce solamente poco più del 3% e molto meno della metà di questo è extravergine, risultando prevalenti le categorie vergine e soprattutto lampante. Quest’ultima tipologia, non direttamente commestibile, viene sottoposta a raffinazione e l’olio raffinato, aggiunto di oli di categoria fino a vergine, viene commercializzato come “olio d’oliva”.
Degli extravergini attualmente prodotti nel mondo la stragrande maggioranza è costituita da oli di basso prezzo, ottenuti in Paesi che dispongono di manodopera a basso costo. Questi vengono a volte etichettati con marchi italiani che in realtà per buona parte appartengono ormai a società spagnole, svizzere ecc., che li utilizzano per vendere con maggiore possibilità di profitto, nella grande distribuzione, oli provenienti da tutto il bacino del Mediterraneo (l’olio italiano gode ancora, nel mondo, di notevole prestigio, quindi possiamo guardare favorevolmente all’obbligo di dichiarare la provenienza delle olive).
Questi extravergini commerciali, che a volte vengono differenziati da etichette che attribuiscono loro caratteristiche di robustezza o delicatezza, o altre definizioni usate per catturare l’attenzione del consumatore medio, pur rientrando a pieno titolo nella classe merceologica dichiarata, non possono essere considerati d’alta qualità. Quali elementi possono farci considerare “di alta qualità” un extravergine? Dobbiamo considerare dapprima la composizione dei lipidi, che rappresentano oltre il 98% in peso del prodotto e costituiscono la “frazione saponificabile”. Alta qualità è posseduta da quei prodotti che hanno un maggior contenuto in acido oleico (anche oltre il 75%) e un giusto rapporto tra saturi/insaturi e tra n 3 e n 6.
Alla valutazione organolettica una maggiore presenza di ac. oleico e un giusto contenuto di polinsaturi conferiscono all’olio una maggior fluidità. Importantissima è poi la “frazione insaponificabile”, costituita da oltre 250 componenti che rappresentano tutti assieme meno del 2% del peso dell’olio. Tra questi spiccano idrocarburi (squalene), cere, alcoli di-e tri-terpenici e alifatici, sostanze coloranti quali clorofilla e caroteni, vitamine liposolubili(A, D, K) e antiossidanti, tra cui i biofenoli (o fenoli polari, che vengono chiamati polifenoli) e i tocoferoli (vitamina E).
Questi componenti conferiscono all’olio colore, profumi e sapori, determinandone le qualità organolettiche positive, comprese le importantissime caratteristiche di amaro e piccante (perdute nell’olio di oliva a seguito dei procedimenti utilizzati per la raffinazione) dovute ai polifenoli.
Tra gli antiossidanti presenti nell’olio extravergine di oliva, recentemente è stata evidenziata l’importanza dell’oleocantale, sostanza che conferisce netta sensazione piccante e possiede anche una spiccatissima proprietà antinfiammatoria, risultando molto simile all’ibuprofene. La presenza dell’amaro e del piccante, che sono ben apprezzabili quando i polifenoli totali superano le 250-300 ppm (parti per milione) misurate in acido gallico, testimonia quindi l’alta qualità di un extravergine, capace di apportare notevoli benefici alla salute iniziando dallo svezzamento per proseguire durante tutta la nostra vita.
Consumi notevoli
Consumare olio extravergine di oliva di alta qualità in ragione di almeno metà del nostro fabbisogno lipidico quotidiano sarebbe sufficiente ad assicurare l’assunzione della giusta quantità di acidi grassi essenziali e vitamine liposolubili e un apporto di antiossidanti naturali capaci di contribuire a ridurre l’insorgenza di tumori della mammella, dell’ovaio, dello stomaco, dell’esofago, dei polmoni, del colon e della prostata di percentuali importantissime, variabili dal 35 al 70 % a seconda dei vari organi considerati. Poiché gli oli extravergini di alta qualità assieme ai benefici per la salute regalano anche gioia al palato, sarebbe un peccato non imparare a usarli bene tutti i giorni.