«In Italia l’attività di stoccaggio dei cereali deve affrontare un grosso problema, la qualità del prodotto che viene conservato». È la tesi del presidente Italmopa Ivano Vacondio, che in un convegno organizzato a Bologna da Italmopa (l’associazione italiana degli industriali mugnai), Assalzoo (l’associazione dei mangimisti italiani), Antim (associazione nazionale tecnici dell’industria molitoria) ed Edagricole ha spiegato che «il problema qualitativo» è sempre più pesante per gli stoccatori perché comporta più impegno e nuovi investimenti.
Oggi infatti il problema della qualità non si ferma più soltanto agli aspetti igienico-sanitari, ma si estende anche agli aspetti di mercato: «Nel caso del grano duro, l’industria di trasformazione chiede una differenziazione in base alle proteine. Nel caso del grano tenero, le cose si fanno ancor più complicate, oggi i rapporti di chi fa stoccaggio cereali sono essenzialmente con la grande industria di trasformazione e questa impone capitolati molto rigidi, chiede di dividere i frumenti per varietà e poi all’interno delle varietà per proteine. Tutto questo comporta un forte impegno per noi mugnai perché le nostre strutture, le nostre celle, erano state impostate per divisioni di tipo quantitativo e non per queste nuove divisioni qualitative».
Il problema, ha concluso Vacondio, viene accentuato dal fatto che «le richieste della trasformazione cambiano di anno in anno con grande velocità: i mutamenti di mercato non avvengono più ogni 10-15 anni, ma sono velocissimi perché oggi le esigenze dell’industria dipendono in modo diretto dalle volubili richieste dei consumatori. E nel caso dello stoccaggio del mais i problemi qualitativi diventano ancora più pesanti».
Come affrontare dunque questa situazione? Una risposta è stata data da Giovanni Di Genova, dirigente Mipaaf: «La qualità degli stoccaggi si raggiunge solo facendo investimenti. Il settore, infatti, è caratterizzato da strutture tutt’altro che moderne. Solo il 20% circa delle industrie molitorie ha dichiarato di avere fatto ampliamenti, il 54% si è fermato ad ammodernamenti e ristrutturazioni, il 25% circa non ha fatto investimenti. Ed è intuibile quale sarà il futuro di questi ultimi». Cosimo Montanari di Ismea ha puntato il dito sulla necessità di investimenti: «Il nostro “Censimento delle strutture di stoccaggio” italiane ha messo in luce la frammentazione dei centri: il 25% della capacità complessiva di stoccaggio è detenuta da un numero elevato di centri. L’età media dei centri di stoccaggio in Italia è particolarmente elevata, segno di obsolescenza delle strutture. Solo il 50% di chi conserva il frumento tenero lo sottopone a differenziazione. I criteri di differenziazione scelti dai centri di stoccaggio italiani consistono per tutti nell’umidità, ma solo in percentuali marginali negli altri parametri qualitativi».
Non mancano però risorse di tipo pubblico per finanziare gli investimenti necessari nel settore dello stoccaggio, ha aggiunto Di Genova. I filoni sono quattro: i Psr e i programmi integrati di filiera; le risorse «messe a disposizione dal governo prendendole dalla Cassa depositi e prestiti: 100-200 milioni nel prossimo biennio»; dalla nuova Legge Sabatini potranno provenire 2 milioni di finanziamenti a tasso 1,82%, con garanzie dello Stato; c’è infine un filone «tutto da valorizzare: la ricerca, con accesso ai fondi Horizon, anche se a questi fondi potranno accedere reti di imprese più che singole imprese».
Ma c’è un altro pesante problema che frena lo stoccaggio italiano, ha continuato il dirigente Mipaaf, è il «problema quantitativo». Le forniture di materie prime, ha spiegato, «sono in continua contrazione: oggi l’offerta italiana di frumento è arrivata al 50% della richiesta nazionale; quella di mais, fra l’altro penalizzata dal fatto che l’affermazione delle agroenergie ha tolto prodotto dal mercato, è arrivata al 78-82%. Come se ne esce? Restituendo redditività alle aziende agricole».
Forniture in contrazione, problema “quantitativo”, eppure il mercato sarebbe recettivo. Lo ha ricordato (v. tab.) Andrea Villani di Ager Bologna. «L’Italia resta un Paese importatore».
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