I produttori pugliesi di uve apirene (senza semi o seedless) potranno scegliere a chi vendere l’uva da tavola da essi prodotta, anche se coperta da royalty. È quanto ha sentenziato la Cassazione chiudendo un lungo procedimento giudiziario partito da una produttrice barese di uva da tavola nei confronti della Sun World International LLC, società statunitense (Bakersfield, California) di sviluppo e concessione di licenze di varietà di frutta (in primo grado aveva prevalso la produttrice barese, in appello la Sun World). In pratica la Cassazione ha liberalizzato la commercializzazione delle uve senza semi in conformità al diritto comunitario, riconoscendo il diritto dei produttori alla loro distribuzione libera, anche se sono brevettate.
Uve apirene, royalty e prezzi imposti
I problemi legati alla commercializzazione delle uve apirene coperte da royalty sono da tempo al centro della discussione da parte degli operatori pugliesi del comparto dell’uva da tavola. Per Berardino Losito, titolare della rivendita Agrofert di Rutigliano (Ba), i viticoltori, dopo gli anni 80 e 90 del secolo scorso che hanno rappresentato l’età d’oro dell’uva da tavola in Puglia, avrebbero dovuto essere lungimiranti e organizzarsi fra loro, invece hanno proceduto ciascuno per proprio conto. «Solo alcuni, quelli che potevano contare su importanti risorse finanziarie, tecniche e organizzative aziendali, sono emersi. Gli altri sono diventati succubi dei commercianti, allora astri nascenti del comparto, adesso i suoi veri padroni, che hanno imposto ai produttori prima i prezzi e dopo persino le varietà da coltivare».
La conversione della viticoltura locale dalla coltivazione di varietà con semi, come la storica “Italia”, la “Red Globe”, la “Victoria” e altre, a quelle apirene, ha evidenziato in maniera ancora più netta, osserva Losito, l’assoggettamento dei produttori ai commercianti.
«Con una massiccia azione propagandistica, volta quasi a demonizzare le varietà con semi, sbandierando che non le vorrebbe consumare più nessuno, gli agricoltori sono stati spinti ad abbandonarle a favore di quelle apirene. Ma quella che era stata presentata come una nuova opportunità di mercato in realtà si è rivelata per i viticoltori un cappio al collo. Chi vuole coltivare uve apirene, che sono coperte da privative vegetali, oltre a pagare pesanti royalty al costitutore (o breeder), deve legarsi a un commerciante che, per conto del costitutore, gli fornisce le marze, gestire la coltivazione attenendosi a regole che questi detta e, infine, cedergli l’uva prodotta, se il mercato la richiede, al prezzo che egli gli impone, accettare un acconto e ricevere il saldo parecchi mesi dopo. Le uve apirene dovevano sfondare i mercati, vecchi e nuovi, così si prometteva. Invece negli anni scorsi, per varie ragioni, compreso il cattivo andamento del mercato per il calo dei consumi, non solo le uve con semi ma anche molte partite di uve apirene sono rimaste sulla pianta, non raccolte. Ciò è accaduto sia ai viticoltori che hanno un rapporto diretto con commercianti sia a quelli, sebbene in maniera più contenuta, organizzati in Op. Tanto più grave se si considera che i produttori avevano già pagato le royalty e sostenuto costi che erano persino aumentati, e di molto, rispetto agli anni precedenti!».
Sentenza liberalizza commercializzazione apirene
In questa complessa situazione si innesta la sentenza della Cassazione, che, accogliendo il ricorso della produttrice barese di uve apirene, ne ha di fatto liberalizzato la commercializzazione in conformità al diritto comunitario. La sentenza infatti così dispone nelle sue conclusioni: “(…) La sentenza impugnata (il riferimento è alla sentenza di appello, a favore della Sun World, N.d.A.), pertanto, deve essere cassata in relazione al motivo accolto e la causa va rinviata alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione, per il corrispondente nuovo esame da effettuarsi alla stregua del seguente principio di diritto: «In tema di privativa comunitaria per ritrovati vegetali, è nulla, per contrarietà all’ordine pubblico, stante la violazione dell’art. 13, punti 2 e 3, del Regolamento (CE) del Consiglio n. 2100/94, nell’interpretazione fornitane dalla Corte di Giustizia, la clausola contrattuale che attribuisca al titolare dei diritti di proprietà intellettuale sui cultivar brevettati anche il potere di individuare i soggetti ai quali soltanto spetterà la distribuzione dei frutti ottenuti dal produttore precedentemente autorizzato all’utilizzo dei costituenti varietali della varietà protetta da cui quei frutti siano stati prodotti, ove questi ultimi siano inutilizzabili come materiale di moltiplicazione» (…)”.
Tutto più chiaro? O più complicato?
Dalla sentenza della Cassazione deriva, dunque, che il produttore è libero di scegliere a chi vendere la propria uva da tavola, anche se si tratta di varietà coperte da royalty. È quindi una sentenza realmente storica? In realtà gli effetti della sentenza non sono chiari. Gli interrogativi sono tanti. Le uve apirene si potranno effettivamente commercializzare senza i vincoli che finora hanno trasformato i viticoltori, secondo una definizione diffusa nel comparto pugliese, in “mezzadri a vita”? Quali potranno essere le ripercussioni del via libera alla vendita di uve coperte da brevetto? Muteranno, e come, gli attuali “equilibri” a livello di filiera, cioè fra breeder, commercianti e produttori? I commercianti accetteranno di acquistare le uve nel libero mercato? Oppure c’è il rischio che l’uva rimanga sui ceppi, invenduta?
Del Core: «Sentenza storica, ma il sistema di filiera rimane importante»
Per Massimiliano Del Core, presidente della CUT-Commissione Italiana Uva da Tavola, «la sentenza conclama finalmente un principio su cui la CUT da sempre è intervenuta occupandosi dei rapporti tra produttori, operatori commerciali e costitutori di nuove varietà internazionali e nazionali per la Puglia e la Sicilia. Il principio secondo cui la tutela del diritto intellettuale frutto della privativa vegetale si esaurisce per il breeder quando viene concesso al produttore il diritto di impiantare. Un principio che veniva distorto dai contratti posti in essere sul territorio italiano. Almeno fino a questa sentenza. Infatti la sentenza della Cassazione decreta che, una volta esaurito il diritto intellettuale, cioè quando la varietà viene piantata legalmente e quindi data in concessione al produttore, il frutto pendente di quella pianta può essere distribuito dal produttore a chi vuole, senza la necessità di un’autorizzazione ulteriore da parte del breeder. Tuttavia, come la CUT ha sempre ribadito, affinché l’innovazione varietale garantisca successo sui mercati e quindi consenta al produttore di beneficiare di un posizionamento competitivo, occorre realizzare una vera filiera in grado di valorizzare il prodotto attraverso l’attività commerciale e di promozione sui mercati: il sistema di filiera di base ibrida e volontaria, in cui produttore e operatore commerciale si scelgono e collaborano rimane la chiave del successo del comparto. Ritengo perciò che la sentenza della Cassazione non deve creare incertezza nelle regole e nei rapporti nella filiera, esasperando ulteriormente la mancanza di programmazione di cui il comparto già soffre. Al contrario, deve invitare a lavorare in ottica di filiera per poter ottenere benefici concreti. Per favorire il dialogo e la pianificazione per lo sviluppo dell’innovazione varietale, la CUT lo scorso ottobre ha proposto di costituire insieme ai breeder italiani e internazionali il tavolo dell’innovazione dell’uva da tavola italiana, con la partecipazione ovviamente di produttori e commercianti. Una proposta che adesso appare ancora più attuale e necessaria».