Brutta, sporca e per nulla attrattiva

ricambio generazionale
Nell'editoriale di Terra e Vita n. 24/2025 parliamo degli ostacoli che frenano il ricambio generazionale in agricoltura. Non sono solo economici ma anche culturali

In principio furono gli annunci roboanti puntellati da cifre poco attendibili sulla percentuale di imprenditori agricoli under 41. La narrazione, anche sulla stampa generalista, di storie affascinanti di giovani che si dedicavano con successo alla coltivazione e all’allevamento o addirittura lasciavano lavori impiegatizi e professioni prestigiose per tornare alla vita bucolica. Poi l’amara verità è diventata difficile da nascondere e con essa il fallimento delle politiche europee e nazionali per favorire il ricambio generazionale in agricoltura. A poco o nulla sono serviti i contributi a fondo perduto per il primo insediamento, le agevolazioni fiscali, le corsie preferenziali nei bandi Psr/Csr e le misure per facilitare l’acquisto di terreni o l’ottenimento di un prestito bancario.

I numeri parlano chiaro. L’età media degli agricoltori del Vecchio (!) Continente è di 57 anni. Solo il 12% ha meno di 40 anni e le donne sono appena il 2,5%.

In Italia la situazione è simile, se non peggiore. Gli alti importi a ettaro del pagamento “giovani agricoltori” per il 2025 lo confermano. Dopo un periodo di silenzio e smarrimento la questione sta tornando al centro del dibattito agricolo-istituzionale, perché la Commissione europea ha avviato i lavori per redigere una nuova “Strategia per il ricambio generazionale in agricoltura”.

Tra i fattori che renderebbero il primario poco attraente per i millenial si elencano le difficoltà di accesso al credito e ai terreni, oltre alla scarsa redditività del settore.

Ostacoli concreti, che però da soli non bastano a giustificare il disinteresse dei giovani. Le motivazioni sono più profonde. Culturali, quasi antropologiche. Eccetto la vitivinicoltura, che gode di un certo fascino anche tra i nati dopo il 1990, il resto dell’agricoltura professionale è ormai percepita come qualcosa di molto faticoso, scandita da tempi completamente diversi rispetto alla maggioranza degli altri impieghi. Si lavora nei fine settimana e a Ferragosto.

Fare l’agricoltore (o l’allevatore) è considerato poco o per nulla prestigioso, da qualcuno anche pericoloso per la salute e dannoso per l’ambiente. A ciò si aggiunga che la vita nelle aree rurali è complicata per la mancanza (o maggiore distanza) di servizi essenziali come sanità, trasporti, connettività. In campagna è più difficile coltivare relazioni sociali. Non sorprende, dunque, che molte aziende agricole, seppur con fatturati a sette cifre, non trovino un successore perché i figli dei proprietari preferiscono dedicarsi ad altro e stare in città.

Quindi che fare? Rassegnarsi allo spopolamento delle aree rurali, con tutte le conseguenze economiche, sociali e ambientali che questo comporta e dipendere sempre più da Paesi stranieri, anche extra Ue, per l’approvvigionamento alimentare?

Dalla bozza della nuova Strategia per il ricambio generazionale in agricoltura sembrerebbe emergere da parte dell'esecutivo comunitario la presa di coscienza di queste criticità e la volontà di provare a risolverle.

Come? Creando le condizioni perché i giovani possano tornare a investire nella terra riconoscendone il valore umano oltre che economico.

Servono politiche che restituiscano fiducia e speranza, affinché le nuove generazioni vedano nell’agricoltura un’opportunità di futuro. Quindi bisogna mettere in campo strumenti capaci non solo di offrire occasioni di business, ma anche di rendere le zone rurali più affascinanti, più attrattive per vivere e lavorare. Non sarà facile.

Brutta, sporca e per nulla attrattiva - Ultima modifica: 2025-12-13T12:01:24+01:00 da Simone Martarello

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